Libero, 13 settembre 2019
Intervista a Tremonti sulla sinistra e i migranti
Può bastare la revisione del trattato di Dublino a risolvere il problema dell’immigrazione? Ieri Enrico Letta, ex premier e fondatore della Scuola di Politiche al via oggi a Cesenatico, ha scritto una lettera a la Repubblica in cui propone l’uscita temporanea dell’Italia dal trattato di Dublino (quello secondo cui il diritto di asilo può essere chiesto solo nel Paese di primo arrivo) e suggerisce di creare un nuovo trattato. Ma Giulio Tremonti, già ministro dell’Economia nei governi Berlusconi, decide di replicargli, mettendosi nei panni di uno studente che, alla fine di una lezione, alza la mano e osa rivolgere obiezioni. Sulla base di alcune intuizioni politiche da lui avute molti anni fa.Prof. Tremonti, quali sono i limiti della proposta di Letta?
«Se io fossi sui banchi della scuola di Cesenatico, mi permetterei di fare alcuni rilievi. Il primo è questo: confesso di essere l’autore della ancora vigente legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini. La relazione sulla legge, da me scritta, iniziava così: “All’alba del terzo millennio si confrontano in Europa due modelli opposti di società: il modello ‘neo- giacobino’ della società universale multirazziale e il modello ‘cristiano’ di una società equilibrata tra forze nuove che premono dall’esterno e valori storici radicati nella tradizione”. C’era già la visione di quanto sarebbe accaduto dopo. Il centrosinistra ha sempre trovato quella legge ingiusta. Ma allora mi chiedo: se era così sbagliata, perché non l’ha cambiata negli anni in cui è stato al governo?».
Quella legge contiene il principio dell’«aiutiamoli a casa loro». La sinistra lo ha mai preso in considerazione?
«In realtà no. Già nel 1995 parlavo in un libro del “fantasma della povertà” che “sta tornando in Occidente”, muovendosi da sud verso nord. E notavo la struttura materiale e virtuale di questo processo migratorio, evidenziando la forza della tv di attirare in Occidente, con immagini di ricchezza, i poveri della Terra. Ancora il 12 settembre 2001 appariva su Le Monde un mio articolo che illustrava la proposta fatta all’Europa, in Ecofin, dal governo italiano di istituire il meccanismo della De-Tax. Il principio era questo: vai in un negozio, compri le scarpe, e se il negozio è convenzionato con il volontariato, l’Europa rinuncia a un punto di Iva per destinare quei soldi all’Africa. La reazione della Commissione Ue allora presieduta da Prodi fu: è una falsa questione perché le migrazioni non sono il problema ma la soluzione. Anziché aiutare le popolazioni africane, si preferì usare i soldi del bilancio europeo per finanziare i governi del Continente Nero. Con automatica destinazione di quei fondi o in armamenti o sui conti personali di dittatori africani».
Letta parla di «strumenti vecchi» nella gestione dell’immigrazione e scarica le colpe sull’Ungheria che pone veti alla redistribuzione dei migranti. Troppo riduttiva come analisi?
«Letta dice che ci sono stati degli errori, ma non spiega chi li abbia fatti, quando e da quanto tempo. Parla di egoismo degli Stati, di colpe dei populismi, che invece sono l’effetto e non la causa della cattiva gestione delle migrazioni. Ma non parla mai della responsabilità delle classi dirigenti di sinistra che hanno sottovalutato il fenomeno».
Crede che Letta e la sinistra in generale difettino di buona memoria?
«La mia impressione è che ignorino la cifra storica del fenomeno. La lettera sembra fondata sulla credenza per cui vivevamo in un Paradiso terrestre e poi all’improvviso, insieme alla mela democratica, è apparso il serpente populista. Molto più serio è l’approccio che si richiama a un passaggio della Bibbia dove c’è scritto che “popoli migranti da Oriente scesero nelle nostre pianure”. Ciò dimostra che da tempo immemorabile l’uomo si sposta, per assicurarsi il cibo o condizioni migliori di vita. Le migrazioni non sono un accidente della storia, ma parte strutturale del destino umano. E, come tali, vanno analizzate in una dimensione complessiva, non per pezzetti e polemiche».
È d’accordo almeno sulla necessità di modificare il trattato di Dublino?
«Sì, ma è un errore incolpare il centrodestra per quel trattato. La sinistra, soprattutto con Minniti, accusa il governo Berlusconi di averlo sottoscritto nel 2005. In realtà la sostanza di quel trattato venne fuori nel 1991, dopo il crollo del muro di Berlino. Quel regolamento serviva a fare in modo che le persone che lasciavano la Germania Est trovassero nella Germania Ovest la prima accoglienza. Non c’entrava nulla il Mediterraneo. Se non si sa la storia, è meglio non parlare».
Letta afferma che il trattato di Dublino non funziona perché «precede l’instabilità determinatasi dopo le primavere arabe». Che ne pensa?
«Gli effetti delle rivoluzioni arabe non c’entrano nulla perché a muoversi sono perlopiù le popolazioni subsahariane. Più in generale il problema non è tanto come accogliere i migranti. Dovremmo piuttosto ragionare su chi ha abbandonato il Paese d’origine e preoccuparci di chi resta. Partono i più giovani e forti mentre restano i più poveri e vecchi, coloro che, per le condizioni di disagio, più facilmente rischiano di venire attratti dalle sirene del terrorismo. Aiutarli a casa loro non è una cattiveria verso quelli che partono, ma una misura a favore di quanti restano».
Infine, come giudica la scelta di dare al Commissario per l’immigrazione la denominazione di «protezione del nostro stile di vita»?
«Mi pare un infortunio semantico. Cosa vuol dire proteggere lo stile di vita? Proteggere l’alimentazione, la moda prêt-à-porter? E poi è curioso che ad adottare quella definizione sia stata una commissione di centro-sinistra. Te la aspetteresti dalla destra».