Corriere della Sera, 12 settembre 2019
Dentro la Farnesina, dove non tutto è ciò che appare
Per capire che cosa ha alle spalle il palazzo in cui si insedia Luigi Di Maio, ministro anti-élite del governo con l’età media più bassa della storia repubblicana, è utile un aneddoto in circolazione decenni fa alla Farnesina. Quando era in arrivo per la prima visita in Italia il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nel 1982, un alto dirigente della diplomazia chiamò un funzionario. Dì a Yasser Arafat che non deve entrare alla Camera con la pistola, fu la disposizione impartita. Non risulta che Arafat abbia rispettato il divieto. Ma l’alto dirigente rimase sorpreso di altro.
«Gli ho detto di avvisare Arafat che doveva entrare senza pistola e quello, Santocielo, lo ha fatto», raccontava stupito il superiore ai collaboratori. Sorpreso, quasi indignato, che quel compito – potenziale scintilla di un incidente diplomatico, e dunque impartito soltanto per dovere d’ufficio – fosse stato scambiato per qualcosa da eseguire davvero.
Ne è passato di tempo. Molto è cambiato al ministero degli Esteri. Tuttavia è bene ricordare che per una somma di ragioni, anche fondate, non è un mondo semplice e del tutto lineare quello nel quale muove adesso i suoi passi il capo politico di 5 stelle. Il navigato Silvio Berlusconi, per esempio, ebbe una certa difficoltà a districarsi fra i suoi usi e costumi che si prefiggeva di rivoluzionare.
Delle pareti di tanti palazzi governativi si potrebbe dire: quante ne hanno viste. Di quelle della Farnesina ha fatto storia anche ciò che non hanno potuto vedere. Lo scatolone di marmo che ha dentro di sé il ministero deve il suo nome all’essere in una zona nella quale c’erano proprietà della famiglia Farnese. Dopo un bando del 1933, la sua forma venne ideata per una funzione mai avuta. Doveva essere sede di rappresentanza del Partito nazionale fascista. Non lo è mai stato.
Nel 1940, mentre era ancora aperto il cantiere, l’edificio fu destinato al ministero degli Esteri e non al Pnf. La guerra allontanò operai e ingegneri. I diplomatici si insediarono nel 1959, per la Repubblica.
Oggi nei sei chilometri e mezzo di corridoi della Farnesina – tanto sarebbero lunghi se fossero un unico rettilineo – si muovono alcune delle migliori intelligenze della pubblica amministrazione e retaggi del passato. Una categoria per sua natura di certo più adatta di altre alla globalizzazione. Allo stesso tempo non immune da pecche della burocrazia. Tra i diplomatici italiani attivi a Roma e all’estero le donne sono 225, i maschi 771. Allo scatolone bianco fanno capo 128 ambasciate, 80 uffici consolari. In marzo il sindacato dei diplomatici Sndmae faceva notare che nella nostra ambasciata a Pechino lavorano undici diplomatici, in quella francese 30 e nella tedesca 52.
Sarà meglio concentrarsi su punti deboli del genere più che prendere di mira qualche abitudine un po’ desueta pur di innovare. Nel debuttare da ministro ad interim, nel 2002, Berlusconi davanti a 51 giovani diplomatici irrise l’allora segretario generale Giuseppe Baldocci indicandone gli abiti: «Lo vedete questo gilet? Non lo porta più nessuno». Un messaggio per l’intera Farnesina. Non bastò a rafforzare l’Italia in campo internazionale.