La Stampa, 13 settembre 2019
Ricordando Ceronetti, sulle scale di Montségur
All’alba del 16 marzo del 1244 i crociati costruirono un recinto ai piedi della montagna. Lo riempirono di legna, appiccarono il fuoco, e poi ci appoggiarono delle scale perché gli oltre duecento «buoni cristiani» catturati saltassero nel rogo. Fu la fine di Montségur, ultima ridotta catara di Linguadoca, l’epilogo della crociata contro gli eretici Albigesi che da oltre tre decenni insanguinava il Midi francese.
Il Camp dels cremats, luogo del massacro, sembra un prato come tanti. E invece è il testamento invisibile di una civiltà non violenta e tollerante: quella della Chanson de la Croisade, delle chiese rosse di Tolosa, dei testi catari e del Vangelo di Giovanni. Una civiltà generosa, che avrebbe riavvicinato Europa e Oriente mediterraneo, e che purtroppo, da allora, finì per sempre nel cestino delle occasioni mancate.
Guido Ceronetti, «unico vero cataro della letteratura italiana contemporanea», sosteneva che dall’agonia di quell’eresia asiatica fosse nata l’Italia spirituale, quella gnostica, neoplatonica, orfica, eleusina… Un’idea che attraversa uno dei suoi capolavori, Un viaggio in Italia, il cui incipit tutto per Montségur («vagina della più segreta Italia») è all’origine di questo viaggio a un anno dalla scomparsa.
Il castello in cima al monte non è opera dei Catari, ma dei loro sterminatori. Della roccaforte dei buoni cristiani che stava al suo posto, resta una ricostruzione al computer cui però Ceronetti avrebbe guardato con diffidenza: per lui la tecnologia era demoniaca, specie l’informatica, e in ogni caso non poteva competere con la bellezza dei paesaggi senza materia che sono uno dei pochi antidoti al progresso.
Lungo il sentiero affiorano antichi gradoni scolpiti nella roccia, e a un certo punto, in prossimità della vetta, s’intravedono le fondamenta di abitazioni catare e i resti di una cisterna. Fino a pochi anni fa, prima che gli archeologi setacciassero la zona, c’erano ancora sparse tra gli anfratti le punte di freccia di balestra e le micidiali palle di pietra delle catapulte, segni inconfondibili dell’assalto finale dei crociati. Per Ceronetti è uno degli «infiniti cammini della Vergine», dove «batte il cuore dell’Occidente simbolico». Un sentiero da salire supplichevoli, «per scale e scale di pena indicibile», fino a raggiungere, a un passo dal cielo, il punto dove si sfiorano i due mondi del catarismo: quello terreno e materiale, opera del maligno, e l’altro di spirito e luce, opera del dio buono, dove i puri faranno infine ritorno.
È scritto nel Libro dei due princìpi, il più potente dei testi catari raccolti da Francesco Zambon (La cena segreta); e nei saggi di Simone Weil che paragonano il destino dei Catari a quello dei Troiani. Ma è il Ceronetti in esilio, il «non-morto di Montségur», a indicare il senso del pellegrinaggio alla «montagna sacrificale»: irrinunciabile meta filosofico-religiosa per tutte le anime senza patria di questa terra.
Mondo come Male assoluto, dottrina della Luce, ricerca della Sapienza divina… Sono immensi i temi del catarismo, anche se la guida parla solo dei quattro Catari che prima del massacro riuscirono a fuggire e a mettere in salvo il Graal. In realtà quella del calice di Cristo è un’altra storia, con Montségur c’entra poco… Ma la fuga ci fu davvero, e forse servì a salvare il tesoro della «Chiesa d’Amore» per affidarlo agli eretici lombardi in lotta contro la «Chiesa di Roma».
Sul ruolo di provenzali e trovatori nella diffusione in Italia del catarismo c’è tutta una letteratura. E sono in molti a ritenere che il linguaggio segreto degli stilnovisti e dei poeti alla corte di Federico II fosse un modo per resuscitare e diffondere l’eresia sfuggendo all’inquisizione. Per Ceronetti «gli spirituali italiani sarebbero gli eredi del Tempio, di Montségur… E Dante messaggero, inviato, di una Provenza segreta in Toscana, la Provenza compiuta…».
Nuèch, plaça, pont, glèisa, canso... È’ sempre cortese il dizionario occitano, e non bisogna essere dei linguisti per rendersene conto. Il Ceronetti ebraista e grecista ripeteva «dove c’è lingua c’è patria», e si considerava «cittadino di Gerusatene» (Gerusalemme più Atene); ma nel richiedere in punto di morte il sacramento cataro del consolamentum, è a Montségur che sceglie di abitare per sempre, anche se da vivo, per vari motivi, non era riuscito a metterci piede.
Forse per questo, salendo il sentiero verso il castello, ho avuto la sensazione di non essere solo. Complice l’emozione, il rumore del vento, e soprattutto Il libretto della vita dopo la morte di Gustav Fechner, che descrive le ragioni di questo viaggio con infallibile precisione: «Qualsiasi cosa desti rimembranza dei defunti è un mezzo adeguato a evocarli. A ogni festa che dedichiamo loro, i morti sorgono; attorno a ogni statua che noi innalziamo loro, i morti aleggiano; a ogni canto che ne celebra le azioni, essi ci affiancano nell’ascolto».