ItaliaOggi, 12 settembre 2019
No al velo islamico per le bimbe. Ma in Germania è scoppiata subito una dura polemica
«Den Kopf frei halten», lasciare libera la testa, un chiaro doppio senso, e una sfida. Il Kopftuch, il velo islamico, deve essere vietato alle bambine a scuola, questa la richiesta dell’organizzazione Terre des Femmes, che risale a circa un anno fa. Ma non è stata realizzata, e ha suscitato le consuete proteste, anche da gruppi di femministe. Non capisco come possano le donne difendere un’imposizione che le umilia. Si è risposto che allora si dovrebbero vietare a scuola (come in Francia) tutti i simboli religiosi, il crocifisso e la kippa, il copricapo degli ebrei. Naturalmente il paragone non regge. Il crocifisso e la kippa sono simboli religiosi, non una discriminazione legata al sesso. Il crocifisso potrebbe non essere esposto in classe e nei luoghi pubblici, ma non dovrebbero essere i musulmani giunti come profughi in Europa a doverlo imporre. Infine, il Kopftuch non è un simbolo religioso, anche se su questo punto si scatenano le polemiche. Nel Corano non viene mai nominato.Si tirano in ballo anche le nostre suore. Ma la loro è una scelta libera da adulte. Credo che siano finiti i tempi in cui si finiva in convento perché le famiglie non avevano da sfamare i figli. Ovviamente, ricordo che nella mia Sicilia da bambino vedevo donne con il foulard in testa, e vestite di nero per un eterno lutto (padre, nonno, marito, fratello), ma nessuno le lapidava se andavano in giro mostrando le chiome.
La discriminazione sessuale era un’altra. Alle elementari si andava in grembiule: nero con fiocco azzurro per me e bianco con fiocco rosa per le bambine. La spiegazione delle maestre era che serviva a nascodere le macchie d’inchiostro. Evidentemente, le mie compagne erano più brave nell’usare penna e calamaio. Ma il grembiule era nero al liceo, e obbligatorio solo per le ragazze. Noi potevamo entrare in classe in maglione, qualche professore antiquato proibiva i jeans. Si temeva nelle classi miste la civetteria della studentesse? Invano. Le mie compagne erano bravissime nel trasformare un informe grembiule in una toilette ammiccante. E io trovavo il nero seducente.
Per tornare al Kopftuch, molte famiglie musulmane lo impongono perfino alle piccole di tre o quattro anni che vanno all’asilo. Nelle lettere ai giornali, molte ragazze che si ribellano all’imposizione raccontano di minacce e percosse in famiglia, e si lamentano di non essere difese dalle madri. Vent’anni fa a Berlino, di rado vedevo una ragazza turca con il velo, andavano in giro liberamente in minigonna. Oggi le loro figlie sfoggiano il velo, che è diventato anche un simbolo di identità nazionale (dopo l’arrivo di Erdogan al potere). Ma sono adulte.
In Germania, chi sostiene il divieto viene accusato di islamophobie, quindi di razzismo, ma la fobia, paura verso qualcosa o qualcuno, dovrebbe essere cosa diversa. Il Verbot sarebbe anticostituzionale. A Berlino, la giunta rosso-verde esita nel vietare il Kopftuch non alle bambine, ma alle insegnanti, dalle elementari al liceo, e anche alle poliziotte, alle magistrate. È stato chiesto il parere della Corte costituzionale che ancora una volta, dal 2003, ha ribadito: un divieto del velo non viola la parità, la libertà religiosa, la democrazia.
Secondo il professore di diritto costituzionale Martin Nettesheim, il divieto per le ragazze fino a 14 anni è perfettamente legittimo, non viola la libertà religiosa, né il diritto dei genitori a educare i figli come desiderano. La petizione di Terre des Femmes è stata bandita da molti siti online. È stata firmata da 35 mila cittadini, la contropetizione dei gruppi che sono per il Kopftuch, da 174 mila.
«In un paese come la Germania, dove è stato imposto alle imprese la quota rosa, e da decenni ci si batte contro ogni discriminazione contro le donne», ha affermato Lale Akgün, psicologa e deputata socialdemocratica, «è un dovere porre fine alla discriminazione delle ragazze musulmane. Non esiste una identità musulmana. È un’invenzione dell’Islam politico». Frau Akgün è nata nel 1953 a Istanbul, dove ha studiato fino alla terza elementare. Da quando ha nove anni vive in Germania, dal 1980 è cittadina tedesca. Per la sua posizione sul Kopftuch ha ricevuto minacce di morte.