ItaliaOggi, 12 settembre 2019
Non strumentalizzato D’Annunzio
Le commemorazioni del secolo dall’impresa di Fiume sono state più numerose e meno aprioristicamente polemiche di quanto ci si sarebbe attesi. Posto che in faziosi settori dell’informazione e della politica il fascismo viene evocato presso che quotidianamente come pericolo alle porte, ci si poteva aspettare che la scontata equazione Gabriele d’Annunzio=Mussolini trovasse immediata accoglienza. Invece, tolte frange di settari (fra i quali gli oppositori a una statua del Vate a Trieste), si è sovente cercato di preferire il discorso storico a quello strumentalmente partitico. Forse è però passata in secondo piano la natura profonda dell’intera vita di d’Annunzio: ogni suo gesto è comprensibile soltanto come opera d’arte, finalizzato alla Bellezza, unica divinità a motivarlo.La vita e la politica, l’amore e la guerra, i viaggi e la cultura, e ovviamente tutta la sua produzione scrittoria, sono altrettanti episodi estetici. Giustamente la sua parentesi parlamentare fu salutata da «deputato della Bellezza»: non parlò mai, soltanto passò polemicamente dall’estrema destra all’estrema sinistra. Il maggio del 1915, quando egli si rivelò ineguagliato trascinatore delle minoranze che ottennero la guerra, fu un susseguirsi di episodi estetici prima ancora che politici, partendo dai discorsi, che oggi paiono a molti di difficile comprensione ma che seppero smuovere soprattutto i giovani. Ammantati di culto della Bellezza sono le sue imprese belliche, da quella sfruttatissima di Buccari fino all’incredibile volo su Vienna, culmine dell’opera in cui meglio il Poeta brillò: la propaganda.
D’Annunzio fu un maestro della comunicazione, non solo politica, fin da quando diciassettenne mise in scena la propria morte per recare pubblicità alle sue prime liriche, che già ne avevano segnato il successo. Quando lanciò il grido di dolore sulla «Vittoria mutilata», con tale formula efficacissima seppe artisticamente dar voce allo scoramento che il dopoguerra stava causando in tanti reduci. Così la presa di Fiume, 12 settembre 1919, giusto un secolo fa, fu un capolavoro estetico e di comunicazione. D’Annunzio diede una veste religiosa e rituale alla politica, elevando la propaganda al livello dell’opera d’arte, nella ricerca della perfezione assoluta che aveva già segnato l’intera sua creazione, dall’ Alcyone al Fuoco. I discorsi dal balcone, i ritmi ternari delle invocazioni (si pensi al successo di Eia! Eia! Eia! Alalà!), perfino la sua attività legislativa, rispondevano a un’ansia inesausta (aggettivo, questo, a lui carissimo) di Bellezza. Chi altri mai avrebbe potuto introdurre in una costituzione, come lui fece nella Carta del Carnaro, la musica quale «istituzione religiosa e sociale»?
Gli studi sull’impresa fiumana confermano i forti limiti della sua capacità politica. Il raffronto con Benito Mussolini è impietoso: ma d’Annunzio a Fiume non concepiva un’azione politica, bensì un’azione estetica. Del resto, seppe diventare un mito al punto che per mesi e mesi, chiusa la fase fiumana, a destra come a sinistra si vide in lui, lo si temette, lo si auspicò, il risolutore della crisi italiana, che sfociò invece nel governo di unione nazionale nel novembre ’22.
Ma a lui la politica importava in senso artistico: il suo decadentismo lo faceva alieno dall’attivismo dei partiti, né più né meno di quanto Oscar Wilde negasse la moralità all’artista, esaltando la suprema inutilità dell’arte nella prefazione al Dorian Gray, monumentale inno alla Bellezza. Per capire l’impresa fiumana, con le sue contraddizioni, le sue polemiche, i suoi limiti, le sue sconfitte, bisogna ricorrere a parametri estetici: la politica veniva ben dopo l’arte, nell’interpretazione di d’Annunzio, per il quale «ne la pura Bellezza il ciel ripose/ ogni nostra letizia».