Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2019
Il primo blitz cinese a Londra fu sul mercato dei metalli
La Borsa di Hong Kong ha già messo le mani su un gioiello della City, conquistando nel 2012 il London Metal Exchange (Lme), storica piazza per lo scambio di metalli, fondata oltre 140 anni fa. Anche sette anni fa al timone della Hong Kong Exchanges & Clearing (HkEx) c’era Charles Li, che – con l’obiettivo esplicito di costruire un gruppo di respiro internazionale, nelle commodities e non solo – era riuscito a superare la competizione dei big occidentali: la sua offerta d’acquisto da 1,8 miliardi di euro (all’epoca pari a 22 volte il valore di mercato del Lme) aveva convinto le autorità britanniche e la maggioranza dei soci della borsa metalli, cancellando ogni timore di influenze indebite da parte di potenze straniere. Gli altri pretendenti – Euronext, Cme Group e Ice – erano stati costretti a ritirarsi.
Certo, Hong Kong non è la Cina. E oggi è ancora più difficile pensare che l’ex città stato, con le strade invase da manifestanti anti-cinesi, voglia fare da cavallo di Troia sui mercati finanziari per conto di Pechino.
All’epoca del takeover del Lme l’ombra della Cina faceva paura: il Paese asiatico non nascondeva (né lo nasconde ora) di voler guadagnare una maggiore influenza sulla formazione dei prezzi delle materie prime e in particolare dei metalli, di cui consuma oltre metà dell’offerta mondiale. Allo stesso tempo però fu proprio la prospettiva di un accesso preferenziale al mercato cinese a rivelarsi determinante per il successo dell’operazione: si pensava che il matrimonio con HkEx avrebbe potuto aprire le porte della City a investitori cinesi, consentendo allo stesso tempo al marchio Lme di espandersi in Asia. Il primo passo sarebbe dovuto essere l’apertura di magazzini di Borsa anche nella Repubblica popolare: strutture decisive per incoraggiare la partecipazione agli scambi, perché i maggiori futures quotati al Lme prevedono la consegna fisica dei metalli.
Non tutto è andato secondo i piani. Ad oggi il London Metal Exchange non conta nemmeno un magazzino in Cina (anche se spera di conquistarne uno a breve, con la mediazione della provincia del Guangdong). Il numero dei contratti quotati si è moltiplicato, includendo anche derivati su oro e argento, nonché una serie di mini-futures denominati in yuan. Al Lme c’è una presenza sempre più ingombrante di speculatori cinesi, che spostano grandi masse di denaro. Ma non c’è stato un boom di scambi, anzi i volumi sono crollati tra il 2015 e il 2017 per risollevarsi solo di recente, grazie a sconti sulle fee che hanno però penalizzato gli utili. I concorrenti americani hanno rosicchiato quote di mercato, ma soprattutto c’è stata una spettacolare ascesa delle borse merci cinesi – quelle cinesi per davvero – a cominciare dalla Shanghai Futures Exchange, che ha soffiato al Lme il titolo di maggiore borsa metalli del mondo, anche se la scarsa presenza di operatori internazionali non le ha ancora permesso di farle ombra.