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 2019  settembre 12 Giovedì calendario

La pazza estate di Boris Johnson

L’ultimo mattone cascato sulla capoccia bionda di Boris Johnson – la decisione della corte scozzese – arriva a suggellare una pazza estate che ha visto il termometro della politica britannica salire a livelli da emergenza climatica. Ma il piromane di turno, in questo caso, è lo stesso primo ministro, che ha messo in fila una settimana dopo l’altra gesti e parole incendiari.
Il tono lo ha dato al momento dell’insediamento a Downing Street, alla fine di luglio. La Brexit si farà il 31 ottobre, proclama, «no ifs, no buts», senza se e senza ma. È finito il tempo dei cacadubbi, la Gran Bretagna si incammina verso un radioso avvenire fuori dall’Unione europea. E non ci sono rischi, assicura, perché la possibilità di un no deal, un divorzio senza accordi, «è una su un milione». Peccato che non spieghi come farà a raggiungere questa intesa in soli due mesi, visto che ha dichiarato carta straccia il compromesso ottenuto da Theresa May.
Ma poco importa, confrontarsi con la realtà non è mai stato il suo sport preferito. Piuttosto, Boris viene colpito da una pericolosa malattia politica, l’annuncìte: i primi giorni di agosto sono scanditi da blitz attraverso l’Inghilterra accompagnati da proclami a raffica, «più poliziotti nelle strade», «tagliamo l’Iva», «internet in tutte le campagne» «grandi ferrovie al nord», e così sciorinando. Sembra una campagna elettorale permanente: anche se, almeno ufficialmente, non ci sono elezioni in vista. E meno male che a Brighton non hanno il Papeete beach, perché la deriva presa era quella.
Il contatto con la realtà, come spesso avviene, è a livello internazionale. Quando dopo Ferragosto Boris va a incontrare a tu per tu Angela Merkel ed Emmanuel Macron, prima del summit del G7: lui spera di far leva sul suo (dubbio) charme personale, ma gli europei non si fanno abbindolare. Gli dicono che ha trenta giorni per farsi avanti con proposte alternative: lui prova a rivenderselo in patria come un grande successo, un segnale che i pavidi europei stanno cedendo. Ma dalle cancellerie continentali arriva tutt’altra musica.
Boris allora fa la voce grossa, fa capire che il no deal non lo spaventa, se è quello che gli europei vogliono tanto peggio. A questo punto i deputati di Westminster cominciano a sentire puzza di bruciato e studiano le contromisure. Ma Boris pigia il piedone sull’acceleratore: e sospende il Parlamento. Gli avversari gridano al golpe, ma lui tira dritto e manda il fido scudiero Jacob Rees-Mogg a chiedere l’assenso della Regina.
A quel punto, tutto precipita. I deputati scagliano il colpo di coda e Boris diventa il primo premier che perde tutte le votazioni in Parlamento da quando si è insediato: Westminster gli ingiunge di chiedere il rinvio della Brexit e gli nega le elezioni anticipate.
Londra-Bruxelles
Le ultime voci lo danno pronto a fare mezza marcia indietro e dire sì a un compromesso
Boris perde la bussola. Finisce a trascinare tori per la cavezza e ad alzare la manona fra i banchi di scuola. Ma soprattutto proclama che non rinvierà mai la Brexit, «piuttosto finisco morto in un fosso». Alle sue spalle, una poliziotta sviene, mentre lui continua a farfugliare frasi inconcludenti.
E tuttavia... gli ultimi spifferi da Downing Street dicono che Johnson sarebbe adesso pronto a fare una mezza marcia indietro, ad accettare un compromesso che potrebbe essere ben accolto dagli europei e soprattutto digerito dal Parlamento: così sarebbe fugato lo spettro del no deal e si andrebbe a una Brexit ordinata e composta. Che ci sia del metodo nella sua follia?