Corriere della Sera, 12 settembre 2019
I segnali e le cose da fare
Potrebbe essersi aperto un periodo relativamente positivo per il nostro Paese, senza alcun dubbio migliore dell’ultimo anno e mezzo. Il detonatore della crisi di governo di agosto era stata la decisione del M5S di distinguersi dalla Lega e votare con Merkel e Macron a favore di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea. Straordinario, visto che solo sei mesi prima Luigi Di Maio si era recato in Francia per incoraggiare la corrente più estrema dei Gilet gialli, un incontro che il governo francese definì a ragione «un’inaccettabile provocazione», tale da giustificare il richiamo del loro ambasciatore a Roma.
Sia chiaro: i seri problemi del nostro Paese rimangono inalterati. La maggioranza che sostiene il governo ha mostrato, nel dibattito parlamentare sulla fiducia, un grado preoccupante di diffidenza reciproca. È possibile, forse probabile, che si ritorni ad una situazione «bloccata» anche se magari con toni meno «urlati» che nel governo precedente.
Ma qualche segnale positivo c’è. La personalità di alcuni ministri fa ben sperare. Luciana Lamorgese, chiamata per restituire autorevolezza e prestigio al ministero degli Interni, è stata uno dei migliori prefetti che Milano abbia avuto negli ultimi decenni. Il fatto che sia una donna a ricoprire per la prima volta questo importante incarico è anch’esso un segnale nella giusta direzione.
I l nuovo ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, è stato votato per due legislature uno degli eurodeputati più influenti, ed è un politico di peso, in un ruolo dove il peso e l’abilità politica sono ancor più importanti della competenza tecnica, in particolare durante i negoziati nell’Eurogruppo e nell’Ecofin. La nuova maggioranza ha tagliato la strada a ipotesi di commissari europei inviati a Bruxelles con il mandato di bloccare gli interventi della Commissione a favore della concorrenza e contro gli aiuti di Stato. Commissario italiano sarà Paolo Gentiloni il cui governo fu il primo, nel 2017, a varare la Legge annuale sulla concorrenza, un obbligo che c’è dal 2009 (legge 23 luglio 2009, n. 99) ma che era stato disatteso da tutti i governi precedenti, di centrodestra e di centrosinistra. Si è ridotto il peso politico della corrente di parlamentari dichiaratamente anti-euro, come l’on. Borghi e il senatore Bagnai. E lo spread sembra averne beneficiato con effetti positivi sulle nostre tasse e sul costo del credito per famiglie e imprese. Certo, rimane un ministro degli Esteri che dovrà imparare le regole scritte e quelle non scritte della diplomazia. Ma i nostri alleati sanno già con chi avranno a che fare e aggiusteranno le loro aspettative.
Questo governo avrà il vantaggio di poter contare su un livello «ideale» di urgenza. Non troppa, come accadde al governo Monti la cui azione fu vincolata dalla severità della crisi finanziaria che lo costrinse ad aumenti di imposte che ebbero effetti immediati sul deficit, ma furono dannosi per l’economia, senza avere il tempo per ridurre la spesa. L’emergenza di oggi dovrebbe spronare, ma non siamo con l’affanno da orlo del baratro.
Su molte questioni, ad esempio povertà e diseguaglianze, M5S e Pd (più Leu) sono molto più vicini di quanto non lo fossero M5S e Lega. Però la relativa vicinanza su obiettivi vaghi non significa che essi condividano gli strumenti per raggiungerli.
Il reddito di cittadinanza va modificato e reso più simile al pre-esistente reddito di inclusione. Un salario minimo troppo alto sarebbe dannoso per l’occupazione, soprattutto al sud: la differenza fra i salari al nord e nel Mezzogiorno deve riconoscere la differenza nel costo della vita tra le due parti del Paese, non solo nel settore privato, dove già in parte avviene, ma anche nell’impiego pubblico. Inoltre, salari reali pubblici più alti al sud che al nord fanno concorrenza sleale al settore privato con effetti negativi sulla crescita. Non è quindi solo una questione di equità nord-sud, ma anche di crescita.
Anche sulle infrastrutture, che sono già emerse come punto di dissidio, un accordo va trovato. Alcune infrastrutture non devono essere cancellate, sia perché già avviate, sia perché derivano da impegni europei. Altre sono certamente utili, come il completamento dell’Alta velocità in Veneto o fra Napoli e Bari. Ma alcune opere, ad esempio l’autostrada fra Orte e Mestre, possono attendere senza che la crescita ne soffra troppo. Meglio usare queste risorse per sistemare gli edifici scolastici, accelerare i viaggi dei pendolari, affrettare i lavori nelle zone terremotate.
Riuscirà la non eccessiva distanza su questioni quali evasione fiscale, povertà, diseguaglianza a fare in modo che i tre partiti affrontino i temi di finanza pubblica con un respiro più lungo? Il punto critico è che il governo si convinca, e convinca gli italiani, che la crescita non si fa ripartire con più spesa pubblica e più debito. Se arrivasse una recessione non ci si dovrebbe preoccupare troppo dei decimali del deficit – come le regole europee già consentono di fare – ma a parte il breve periodo non è certo con un debito sempre crescente che si sostiene la crescita, anzi. Cosa fare dunque, dato questo vincolo da cui non si può prescindere?
Per tagliare la spesa, e quindi le tasse, senza far ripartire il debito occorre il coraggio di fare due cose: innanzitutto eliminare tutte le cosiddette «spese fiscali», qualche decina di miliardi di favori elargiti negli anni a vari gruppi, di solito alle imprese più abili nell’intrattenere rapporti con la politica, e che pagano aliquote agevolate. Vanno tagliate tutte insieme per evitare l’obiezione «perché io sì e lei no?». E poi si deve andare al cuore del nostro sistema di welfare rendendolo «means tested» (cioè «in funzione del reddito») e non continuare ad offrire anche ai ricchi servizi pubblici sottocosto e quindi pagati, in parte, dalle tasse di tutti, ad esempio nella sanità e nell’università. Certo, l’evasione fiscale distorce gli effetti di qualunque politica «means tested», oltre a colpire gli onesti. Ma l’evasione, se davvero si vuole, la si può combattere, come esperienze di altri Paesi hanno dimostrato. Va anche eliminata quota 100 e in generale occorre ristabilire più equilibrio tra gli anziani che beneficiano del welfare e le generazioni future che lo finanziano.
Abbiamo quindi risolto in agosto tutti i problemi dell’Italia? Certo che no ed è possibile che il governo fallisca ricacciando il Paese nel tunnel dell’instabilità. Speriamo di no. Oggi un barlume di luce c’è.