Come iniziò quel giorno?
«Male. Pioveva, c’era un forte temporale. Pietro era malmostoso, di cattivo umore, non voleva correre. Gli capitava spesso di essere così, contro tutto e tutti. Mi spazientii, gli dissi: io vado, fai come ti pare, e mi avviai al bus. Allora lui: aspettami, Rocky, faccio la sacca. Arrivammo allo stadio e non c’erano i suoi blocchi, venne inviato di corsa Sandro Giovannelli a prenderli in magazzino. Tutto al pelo, tutto all’ultimo minuto. Lo aiutai a fare stretching, Carlo Vittori, il suo allenatore, si sistemò sui gradoni».
Come s’era guadagnato la fiducia di Pietro Mennea?
«Semplice. In me riconobbe uno come lui. Un poveraccio. Venivo dalla campagna, a Imbrecciata, una frazione di Filottrano, dove sono nato, facevamo la fame. A casa, eravamo in quattro, mangiavamo a giorni alterni, mio fratello è andato in seminario per avere tre pasti al giorno, poi ha lasciato. Chi tornava dagli Usa, dopo essere emigrato, diceva che qui si stava male come nel Bronx. In Pietro riconobbi un vitello marchiato del sud, ragazzo segnato dal complesso di inferiorità, quello di appartenere a una terra che non valeva niente. Soffriva molto per questo, non glielo feci mai pesare».
Vero che lui non subiva infortuni?
«In 20 anni si sarà fatto male non più di 5 volte. E sempre sciocchezze. Sì, aveva muscoli di seta, ma senza esagerare. Il suo fisico non era straordinario, molto meglio quello di Pavoni e Sabia. Ma la testa era formidabile. È sempre quella che fa la differenza, il suo cervello produceva più delle gambe. E sopportava carichi di lavoro pazzeschi, tutti gli altri per seguirlo si sono rotti. Mi ero occupato anche di Panatta, di Borg, e a Reggio Emilia per il ‘Don Chisciotte’ avevo trattato Rudolf Nureyev che aveva mal di schiena. Potevo fare paragoni».
Nureyev ballava, Mennea correva.
«Si, ma Rudolf aveva un corpo scultoreo. Era la perfezione, sembrava volare in scena. Gli feci due trattamenti e lo rimisi in piedi. Voleva che lo seguissi in esclusiva, il prezzo lo avrei deciso io, ma rifiutai.
Gli chiesi solo: come si diventa Nureyev? Mi sorrise e con il suo russo-italiano, con molta dolcezza, mi disse: Nureyev si nasce. La differenza? Mennea venne a casa mia nelle Marche, subito dopo il record, a conoscere la mia futura moglie e mio suocero commentò: quello lì sta male, è gobbo, cammina storto. Pietro in pista si trasformava, ma a vederlo non gli davi una lira».
Però il suo record mondiale, 19"72 mondiale, è durato 16 anni e nove mesi: più di quello di Owens e di Michael Johnson.
«E chi se lo aspettava? Noi a Città del Messico, no. Sapevamo che era in forma, che aveva fatto buoni tempi, ma non che accendesse i razzi così. Abbiamo iniziato a capire la meraviglia quando è uscito dalla curva. Ha corso la seconda metà in 9"38 e la prima in 10"34. Vittori aveva il cronometro in mano, ma andò in confusione, mi prese in braccio e gli venne l’ernia. Pietro venne subito da me, mi accarezzò il volto. Ho ancora la foto. E iniziò a sproloquiare: ‘Ecco un italiano di Barletta’. E io: che stai a dire? Barletta è in Italia. Ma forse ha avuto ragione lui: se la sua città è famosa nel mondo è per Mennea».
Lei ci andava d’accordo?
«Ho amato Pietro, sono stato in difficoltà con Mennea. Per lui facevo il buffone e da parafulmine, assorbivo le sue paure, i tormenti, le angosce. Lo convincevo come quel 12 settembre a Città del Messico: smetterà di piovere, uscirà il sole, non ci sarà vento, scapperai come una lepre, li distruggerai. Ma lui ti prosciugava con i dubbi e le insicurezze, ti incupiva il cielo, io sempre lì a spazzargli ombre e temporali. A Praga nel ’78 lo trovarono accasciato per strada, pieno di acido lattico, che urlava dai crampi. Lo trattai dalle 8.30 del mattino fino a mezzanotte, Pietro aveva paura che il dolore tornasse e mi costrinse a dormire con lui per tre giorni. In due su un letto singolo».
Riusciva anche a farlo ridere.
«Sì. Facevo finta di parlare inglese con le ragazze, dicevo stupidaggini. Lui con me si divertiva. E si fidava: perché le sue confidenze le ho sempre tenute per me. Era riservato, se solo ti scappava qualcosa con lui avevi chiuso. Ma era anche uno che voleva avere ragione. Dovevi sempre accontentarlo».
Quel giorno Pietro pensò di essere andato molto oltre?
«Basta guardare i suoi occhi e quelli di Vittori. Lucidi e finalmente sereni, in tutte le foto. Come di chi ha raggiunto la pace. Vittori ha sempre detto che quel Mennea valeva 19"60, ma nessuno pensò a ritornare in altura. Pietro era soddisfatto, gliela aveva fatta vedere al mondo, lui uomo del sud. Non c’era niente da fare: aveva quel pensiero fisso. Ma si sacrificava tanto: tra lui e Vittori c’è stato un rapporto odio-amore che ha portato alla bellezza, ma con troppa violenza dentro. C’era bisogno di darsi del lei per tutta la vita, di mantenere le distanze, di essere vittima a carnefice? Per me, no».
Lei era il fisioterapista della nazionale?
«Si. Ho massaggiato Pietro dopo ogni allenamento, ogni sera, per 40’-50’.
Avevo iniziato a 7 anni, da bambino, a curare le bestie: le galline azzannate dalle faine, le pecore, i vitelli spallati. Trattavo solo animali, mai toccato un corpo umano. Per sfuggire a quella miseria mi sono arruolato nei carabinieri a 16 anni, per andare a Roma ho preso per la prima volta il treno, poi sono entrato nel gruppo sportivo a Bologna arrivando terzo in una gara dei 5 mila, io che avevo corso solo per rubare la frutta dagli alberi dei contadini. Non ero fatto per lo sport, iniziai a frequentare le lezioni del professor Boccanera, affascinato da muscoli, tendini, sarcolemma, li avevo già visto nei maiali quando li ammazzavano. Chirurgia non mi interessava, avevo visto nascere un neonato di 8 mesi da una donna morta. Avevo 21 anni, mi è bastato. A Pietro invece le mie rassicurazioni non bastavano mai. Ma le mani assorbono e Mennea era pieno di energie negative. Per farle diventare positive, mi stremava. A lui la rabbia serviva per costruire capolavori».
L’ultima volta che l’ha visto?
«A una cerimonia a Jesi, tre mesi prima che morisse. Era gonfio e giallo. Cos’hai, gli chiesi. ‘Un po’ di ittero’, sussurrò. Protestai: mi prendi per cretino? Farfugliò qualcosa e gli scese una lacrima. Era la seconda volta che lo vedevo piangere, la prima era stata dopo un rimprovero violento di Vittori. Gli mandai un messaggio: ricordati che hai avuto una grande vita e che quello che hai fatto resterà. Non rispose. Era fatto così: lui non poteva stare male, non l’avrebbe mai ammesso, lui ce l’avrebbe fatta perché era nato per combattere e vincere. Ma con quella malattia non si gareggia così. Ho avuto un solo regalo da lui, dopo otto anni: un orologio di seconda mano. Ma dentro mi resta molto di più. Come al mondo».