Corriere della Sera, 11 settembre 2019
Settembre 1992, attacco alla lira
L’11 settembre 1992 vi fu una riunione drammatica fra il presidente del Consiglio Giuliano Amato, il ministro del Tesoro Piero Barucci e l’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Il tema era la situazione della lira da mesi sotto attacco della speculazione che mirava a forzare un riaggiustamento delle parità in seno al Sistema monetario europeo (Sme).
Fino ad allora governo e Banca d’Italia avevano scelto di resistere, anche se, nella difesa del cambio, erano stati bruciati 70 mila miliardi di riserve valutarie. Nel Paese il dibattito era aperto: molti ritenevano che non valesse la pena di compromettere la posizione valutaria per difendere una parità non più realistica e che una svalutazione avrebbe favorito le esportazioni e quindi la ripresa; il governo controbatteva che dopo la svalutazione il maggior costo delle importazioni avrebbe eroso immediatamente i guadagni di competitività e avrebbe alimentato l’inflazione, che era il nostro problema principale.
La Banca d’Italia conveniva con il governo. Ciampi riteneva che le regole dello Sme consentivano di resistere in quanto prevedevano che le banche centrali dei Paesi con valuta forte, cioè in buona sostanza la Bundesbank, dovessero intervenire senza limiti a sostegno delle parità, come avevano fatto fino a quel momento. Insieme le banche centrali avevano un potere di fuoco ben superiore a quello della speculazione ed erano in grado di infliggere a quest’ultima perdite tali da scoraggiarle dal ripetere gli assalti.
Per l’Europa il problema di scegliere un regime dei cambi si era posto quando era saltato il sistema di Bretton Woods con la dichiarazione di inconvertibilità aurea del dollaro del 1971 e il passaggio dai cambi fissi ai cambi fluttuanti nel 1973, di cui abbiamo parlato in due precedenti articoli. Il dilemma a quel punto era stato se lasciare fluttuare i cambi anche in seno alla Comunità economica europea o istituire un regime di cambi fissi al suo interno, lasciando fluttuare le monete europee nei confronti del dollaro e delle altre valute. Era stata scelta questa seconda soluzione. E tuttavia il mantenimento di cambi fissi fra i Paesi europei che avevano tassi diversi di crescita e di inflazione, in un mondo in cui vi era grande instabilità dei prezzi del petrolio e delle materie prime e dove cominciavano ad acquistare consistenza i movimenti speculativi di capitali, si rivelò difficilissimo fin dall’inizio.
Il primo tentativo fu il «serpente monetario», un accordo del 1972 fra le banche centrali dei Paesi della Comunità travolto rapidamente dalla speculazione. Nel 1978 dal serpente si passò allo Sme, non più un semplice accordo fra le banche centrali, ma fra i governi, dotato di risorse che potevano essere prestate ai Paesi in difficoltà. Lo Sme prevedeva tassi di cambio fissi fra i Paesi membri con limitati margini di oscillazione. I governi si impegnavano ad assicurare il mantenimento di quelle parità, salvo che ci si trovasse di fronte a squilibri fondamentali che avrebbero imposto mutamenti delle parità centrali da convenire fra i Paesi membri.
Due anni fa, in un’intervista, Giuliano Amato ha raccontato che, mentre la loro riunione era in corso, Ciampi era stato chiamato al telefono dal presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger e che quando aveva posato il telefono «era verde in volto»: Schlesinger lo aveva informato che dal successivo lunedì la Bundesbank avrebbe interrotto ogni intervento a sostegno della lira. A quel punto le riserve perse erano perse per sempre e non rimaneva altro che sospendere la partecipazione allo Sme e svalutare la lira: la speculazione aveva vinto.
Solo molti anni dopo si è conosciuto il retroscena di quella telefonata. In un libro redatto avendo accesso agli archivi delle banche centrali, il professor Harold James dell’Università di Princeton ha rivelato che nel 1978, all’atto della creazione dello Sme, la Bundesbank aveva dichiarato per iscritto al governo tedesco che essa non si riteneva vincolata a fare gli interventi di sostegno nei confronti delle altre valute previsti nell’accordo. Essa aveva un mandato anti-inflazionistico ed era il solo giudice delle politiche che potevano rispettare o violare quel mandato: acquistare valute europee di Paesi in difficoltà voleva dire immettere dei marchi nel mercato e questa immissione avrebbe potuto generare pressioni inflazionistiche.
Gli altri Paesi avrebbero dovuto essere informati. Invece, pochi giorni prima che nascesse lo Sme, il 30 novembre 1978 – rivela James – il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt aveva preso parte al Consiglio della Bundesbank e aveva dichiarato di condividere la posizione della Banca, ma di ritenere che questo consenso non dovesse essere reso pubblico perché questo avrebbe compromesso l’accordo che si andava profilando. «Immaginiamo – aveva detto – che esso appaia su un giornale italiano o francese… Un governo che promette loro di intervenire sulla base di certe regole del gioco, ma scrive all’interno la sua intenzione di comportarsi altrimenti se del caso? Nella materia sono d’accordo con voi, signori, ma di scriverlo non se ne parla proprio… C’è un bel detto da duemila anni e cioè che ultra posse nemo obligatur. E circa l’ultra posse ciascuno decide per conto suo» (H. James, Making the European Monetary Union, Harvard University Press, 2012, pp. 172-3).
Questo episodio dimostra che i cambi fissi, che possono essere molto utili, richiedono che l’onere del loro mantenimento debba essere condiviso fra Paesi forti e Paesi deboli. Questo era stato lo spirito della proposta originaria di Keynes a Bretton Woods. E su questo spirito, all’epoca dello Sme, contavano Ciampi e il governo italiano.