Corriere della Sera, 11 settembre 2019
Enrico Vanzina racconta l’amore per Carlo
«In un inglese sporcato da un leggero accento yiddish, il professore mi disse: “Suo fratello è in ottime mani. Conosco il professor Maio. Ogni nostro nuovo protocollo di ricerca viene immediatamente condiviso con lui e con un altro ospedale in Germania. Siena è come New York”. Il professore fece una pausa e aggiunse: “Con una sensibile differenza, però. Per le stesse cure che fa a Siena, venendo qui da noi a New York, suo fratello dovrebbe spendere centinaia di migliaia di dollari. In Italia, invece, viene curato gratis. Mi lasci dire che il vostro è un grande Paese”. Le parole di quel medico di New York rimarranno per sempre impresse nella mia memoria. Diciamolo anche noi, ogni tanto, seppure sottovoce: l’Italia è un grande Paese».
Tra i mille spunti da cui si potrebbe partire per sintetizzare questa storia, scegliamo pagina 80, quella dell’orgoglio e della speranza. È anche una storia di speranza, in effetti. Ma è anche una storia di panico, disperazione, dolore. Il racconto di «quei lunghi momenti in cui ogni cosa ti diventa ostile. Hai paura di tagliarti con una forchetta, di scivolare sul lembo di un tappeto. Senti la tua casa che scricchiola. Temi che intorno a te tutto possa crollare. L’ignoto soffia come un vento in tempesta».
È un libro scritto benissimo, tutto fatti, senza una parola di troppo. Del resto è scritto da uno sceneggiatore, ora finalmente rivalutato anche dalla critica, che per decenni ha pensato i film che il fratello ha realizzato, divertendo il pubblico e pure commuovendolo con vicende piene di poesia, da Sapore di mare a Il cielo in una stanza. Anche qui c’è poesia. E di tanto in tanto si sorride. Ma è anche un libro molto duro.
È la storia della malattia e della morte di Carlo Vanzina, raccontata nei minimi dettagli, psicologici e clinici, dal fratello Enrico (e pubblicata da HarperCollins: Mio fratello Carlo è il titolo). Una storia crudele, e non tanto perché l’ospedale di Siena, per il quale Vanzina ha solo buone parole, alla fine rifiuta il ricovero, forse perché – ipotizza l’autore – teme che la morte di una persona famosa possa nuocere al buon nome della struttura. Crudele perché il fratello maggiore non riesce a proteggere il più piccolo. Perché Carlo spira nella stessa clinica dove trent’anni prima è morto il padre, il grande regista Steno (e non si può non ripensare alla splendida fotografia in cui Alberto Sordi tiene in braccia Enrico e Carlo bambini). Perché è crudele la scena delle tre figlie del malato, Virginie, Isotta e Assia, distrutte al suo capezzale, dopo aver realizzato che è stata loro raccontata una pietosa bugia, e papà non si sta riprendendo da una polmonite; sta morendo.
Solo leggendo il libro se ne potranno scoprire le sfumature e gli aneddoti. La preparazione di un funerale che non sarà celebrato, perché Carlo cui sono stati dati pochi giorni di vita miracolosamente si riprende. Il rosario donato da papa Francesco (la fede conforta le giornate dei due fratelli). L’assegno staccato da Aurelio De Laurentiis per «lavori futuri» che Carlo non potrà più fare, in modo da consentirgli di pagare i debiti e andarsene sereno. Roberto Gervaso che fa leggere a Enrico il passo delle lettere a Lucilio di Seneca sulla necessità di «lasciare serenamente la vita, alla quale molti si avvinghiano e si aggrappano allo stesso modo in cui chi è trascinato via dalla furia delle acque si aggrappa ai rovi e alle rocce...». Il rifiuto della sedazione: Enrico non vuole «staccare la spina» a Carlo, che del resto non lo chiede, chiede semmai di guarire, e spera in una pillolina prodigiosa che è in realtà un placebo. I giorni passati a lottare e la paura che arriva con la notte, perché «la notte può essere una prigione. Impossibile evadere. Di giorno non ci accorgiamo del pericolo che comporta il fatto stesso di vivere».