La Stampa, 11 settembre 2019
A 18 anni dall’11 settembre, come cambia la minaccia jihadista
A diciotto anni dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington la minaccia jihadista contro l’Occidente resta in tutta la sua ferocia anche se ha fattezze assai diverse da quelle dell’Al Qaeda di allora.
L’11 settembre 2001 Al Qaeda, allora l’incarnazione principale di un movimento jihadista globale che aveva già insaguinato il mondo islamico da decenni ma che era ancora pressoché sconosciuto in Occidente, porta la sua sete di morte mirata a raggiungere un obiettivo - la creazione di società islamiche guidate da una interpretazione ultra-letteralista del Corano - a casa del paese che più di ogni altro considera nemico della visione di Osama Bin Laden e del suo gruppo.
Da quel fatidico giorno sono passati, dal punto di vista geopolitico, anni luce: la guerra al terrorismo, con i suoi successi ma anche con le sue derive, migliaia di attentati in tutto il mondo, la diffusione di misure di sicurezza che ormai diamo per normali ma che fino ad allora erano impensabili, l’assuefazione alla paura di attacchi terroristici, infiniti dibattiti su questioni fondamentali come il rapporto tra libertà civili e necessità di sicurezza o sulla natura dell’Islam (del quale il movimento jihadista si auto-proclama paladino e rappresentante, nonostante la sua visione oscurantista sia rifiutata dalla stragrande maggioranza dei musulmani) e la sua posizione all’interno delle società occidentali.
Nel 2014, con l’ascesa dell’Isis - gruppo che nasce come costola di Al Qaeda e con la quale ora lotta per la primazia del movimento jihadista globale - la creazione del Califfato e l’ondata di violenza che ne è conseguita, abbiamo toccato l’apice della violenza jihadista. Ma, per quanto la partita col jihadismo sia una che l’Occidente vorrebbe chiudere da anni, è scioccamente ottimista pensare che si possa pensare ad una fine della minaccia.
La perdita di territorialità da parte dello Stato Islamico ha chiuso una fase particolarmente intensa della storia del jihadismo, a livello globale come nei nostri confini, per aprirne una nuova caratterizzata da forte incertezza e poliformità della minaccia. Lo Stato Islamico non è più Califfato ma è sempre vivo: come forza insorgente in Siria e Iraq; nelle provincie (wilayet) satelliti che ha creato in vari continenti, cooptando network jihadisti locali; sul web, dove esiste il cosiddetto "califfato virtuale"; e come idea che motiva adepti ovunque, Occidente incluso. È poi ancora forte, anzi, viene ritenuta da molti in forte crescita, Al Qaeda, che seppur offuscata dallo Stato Islamico durante i giorni del Califfato, ha adottato una tattica attendista che l’ha portata a rafforzarsi nel lungo. In questo momento il jihadismo globale non ha un punto focale forte come lo è stato il Califfato per buona parte di questa decade, ma appare più simile a come era dieci anni fa, prima delle Primavere Arabe: disperso su vari fronti, dal Nord Africa alle Filippine, ma con forti legami transnazionali e pronto a colpire ovunque.
Il problema è che al Qaeda, l’Isis e la miriade di gruppi che orbitano nelle loro galassie, siano essi più o meno forti, votati più a perseguire obiettivi locali o globali, sono semplicemente emanazioni momentanee di un fenomeno ideologico che continua ad attrarre adepti. Successi tattici (operazioni militari contro gruppi jihadisti, arresti, attentati sventati) sono fondamentali ma rimangono delle vittorie di Pirro finché non si vince la battaglia fondamentale dell’indebolimento dell’appeal ideologico del jihadismo e delle complesse questioni politiche, sociali, educative, teologiche ed economiche che lo rendono attrattivo agli occhi dei suoi tanti adepti.