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 2019  settembre 11 Mercoledì calendario

Intervista a Joe Bastianich

Quanti ristoranti col suo nome ci sono in giro per il mondo? Joe Bastianich, 51 anni il 17 settembre, restaurant man italoamericano, personaggio televisivo (è stato per otto stagioni giudice di MasterChef ) e rocker non proprio a tempo perso (il 20 di questo mese pubblica Aka Joe , l’album d’esordio che profuma di Springsteen, Bon Jovi e Tom Petty), cerca di fare l’inventario. «Dunque, con Eataly…senza Eataly… poi quelli in partnership con Jay-Z e Michael Stipe… Ma non so… sono tanti…», dice, camuffato sotto bandana e cappello da basket, sulla terrazza di un hotel romano. Alla fine, annoiato, rinuncia: «Se ne occupa la mia famiglia». Si rianima parlando di musica: «L’esperienza culinaria e i concerti dal vivo – le uniche due cose che non si possono fruire sul telefonino - sono un’ottima ricetta anticrisi. Ho sempre suonato, fin da bambino. Poi per vent’anni mi sono immerso nel lavoro, ho messo su famiglia, ho aperto mille ristoranti, mi sono distaccato dalla musica.
Quindici anni fa ho ripreso la chitarra in mano. Contemporaneamente è iniziata la mia carriera televisiva e ho anche cominciato a scrivere libri.
Raccontare mi è congeniale».
Non c’è una distanza incolmabile tra il restaurant man e il music man, oggi gli chef sono osannati come popstar, e lo stile di vita è simile.
«Il music man è l’alter ego del restaurant man. Da una parte c’è la famiglia, l’immigrazione, la sofferenza, il lavoro duro; dall’altra c’è l’antidoto a tutto questo, la musica. Musica vuol dire libertà, passione, purezza. Gli eccessi cui lei allude sono connessi alla celebrità.
Più sei famoso, più diventi vulnerabile. Vale per lo chef come per la rockstar. Se il music man non ha preso il sopravvento è perché mi è mancato il coraggio, sono ossessivamente autocritico. Ora i ristoranti possono andare avanti anche senza di me e quanto alla tv, conclusa l’esperienza di MasterChef ,la vedo solo come un mezzo per promuovere la mia musica».
Il primo passo è "Amici Celebrities" con Maria De Filippi a fine settembre.
«Mi metterò a nudo, farò cover e brani miei, non andrò a fare karaoke.
E subito dopo c’è Italia’s got talent .
Inizio la promozione dall’Italia, poi si vedrà».
Lei è nato a New York da genitori italiani, che insegnamenti le ha trasmesso la famiglia?
«Sono figlio di immigrati, rifugiati negli Usa dopo la guerra, senza prospettive e senza un soldo in tasca.
I miei nonni hanno conosciuto l’emarginazione e la fame; sono realtà che lasciano segni forti. Ero un ragazzo diverso, cittadino di seconda categoria, afflitto da un tremendo complesso di inferiorità. La musica è stata un modo per camuffare la mia italianità e approdare nell’America vera. A dieci anni la nonna mi regalò una chitarra, a tredici avevo la mia prima band, suonavamo nel garage di casa dove i miei preparavano i salami e conservavano i vini».
Nel disco c’è una canzone dedicata alla nonna; non ce ne sono molte nella storia del pop.
«Abbiamo anche girato un video coinvolgendo nonna Erminia. Ha 99 anni. È la matriarca; fuggirono in cinquanta da Istria e vissero un paio d’anni in un campo profughi a Trieste, e da lì in America, nel 1954. Mi ha cresciuto lei, i miei erano troppo impegnati col ristorante. Gli uomini di casa erano tutti musicisti dilettanti, le femmine tutte cantanti, avevano anche una sorta di balera istriana nel Queens. Io invece ero totalmente dalla parte dei Led Zeppelin e, dalla fine dei Settanta, un punk a tempo pieno. Con il gruppo suonavamo cover dei Sex Pistols e dei Ramones, che erano cresciuti nella stessa via del Queens in cui abitavamo noi. Frequentavo il CBGB’s e il Mudd Club. Per la nostra comunità quello era un mondo corrotto. Ne parlo nella canzone Joe played guitar : suonavamo God Save the Queen e nell’altra stanza la nonna preparava i rigatoni alla bolognese.
Vivere in bilico tra famiglia, cibo e punk rock mi ha fatto crescere sano».
"È difficile essere arrabbiati quando tua madre cucina così bene", parole sue…
«Infatti, per essere un vero punk devi essere super incazzato, io non lo ero abbastanza. Ho avuto la fortuna di avere ristoranti molto famosi a New York, frequentati da artisti. Prima Becco, che ho aperto nel 1991 nella zona dei teatri, il preferito da Stephen Sondheim e Andrew Lloyd Webber, poi Babbo, nel West Village, dove sono nate delle amicizie vere con David Bowie e Iman, che erano clienti fissi, Lou Reed, che si lamentava sempre, pretendeva di sapere tutto della cucina italiana e in realtà non ci capiva niente, Michael Stipe, Dave Grohl, che mi ha portato in tour con i Foo Fighters, Chris Robinson dei Black Crowes - una sera portò Jimmy Page, che però era diventato astemio».
Nel disco ci sono spunti politici, come "Twenty snowflakes", contro l’uso delle armi, e "War cry", che denuncia l’ imperialismo americano.
«L’ho scritta all’inizio del mandato di Trump, che ha ridotto l’America a un disastro. Nazionalismo e sovranismo, negli Usa come in Italia , mi spaventano. Come possiamo pensare che la nostra responsabilità di esseri umani si limiti ai confini del territorio nazionale?».