Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  settembre 11 Mercoledì calendario

Intervista a Franco Maresco

Mentre fervevano i preparativi per la premiazione della Mostra di Venezia, dove il suo La mafia non è più quella di una volta ha vinto il premio speciale della giuria, Franco Maresco, rimasto a Palermo, ha staccato il telefono ed è andato a dormire. Insonne cronico, cerca di recuperare nei momenti più improbabili. Il suo documentario (ma è un documentario?), in sala domani, ha convinto la giuria internazionale, e non era scontato. Il film è molto italiano, anzi palermitano: la cronaca di un anno, tra 2017 e 2018, attraverso due personaggi: la fotografa e militante antimafia Letizia Battaglia, e l’impresario di feste di piazza Ciccio Mira. La prima, sgomenta davanti alle celebrazioni per la morte di Falcone trasformate in baraccone; il secondo, pronto a cavalcare un’antimafia ormai innocua.
Perché non è andato al Lido?
«Una serie di concause. Di solito si migliora nella vita, invece le mie fobie sono tutt’altro che diminuite e ormai è un incubo spostarmi. E poi la mia presenza a Venezia sarebbe stata in contraddizione col film stesso. Il film parla di una mania diffusa di esibirsi, di stare al centro dell’attenzione, dai sottoproletari agli intellettuali. In particolare, non volevo portare lì Ciccio Mira, lo avrei esposto a un fuoco di fila. Certo, dal film lui esce come una simpatica carogna; però io credo di essere stato leale, di aver giocato alla pari. Mi immagino già i giornalisti che gli avrebbero chiesto di ribadire il no alla mafia… Mi vedevo già la macchietta».
Come ha conosciuto Letizia Battaglia?
«Quando andavo alle medie lei aveva uno studio in un vicoletto di Piazza Marina. Era bellissima: capelli biondi, la gonna a fiori e gli zoccoli, la macchina fotografica. Poi la incrociai per un delitto avvenuto nel palazzo dove abitavo: un marito aveva ammazzato la moglie e ne aveva vegliato il cadavere barricandosi in casa. Quando aprirono la porta, insieme alla polizia entrò anche lei.
La conoscenza vera vent’anni dopo, grazie a Goffredo Fofi, e scattò subito l’empatia. Lei disse subito a Goffredo: "Conosci un simile giovane con gli occhi verdi così belli e me lo tieni nascosto!". Io mi sono sempre ritenuto oggettivamente un mostro, per cui come inizio non fu male».
Nel finale del film tira in ballo il presidente Mattarella. Un attacco?
«Non direi. La polemica era un po’ pretestuosa. A un certo punto c’è la sentenza del processo sulla trattativa e io chiedo a Letizia come mai la cosa sia caduta nel silenzio di tutti, compreso il Presidente della Repubblica. Ora, è vero che le sentenze non si commentano, ma qui non siamo nello specifico di un fatto criminoso. Io mi riferivo a quello che la sentenza implicava. Più che una polemica era uno spunto narrativo per passare la palla a Ciccio Mira, subito dopo gli faccio la stessa domanda e lui parte con un’apologia di Mattarella e un racconto scombinatissimo, su uno zio, un incidente d’auto, le passioni cinefile del presidente. Poi si scopre che in realtà probabilmente vuole chiedere la grazia per un congiunto in carcere. Se fossi andato a Venezia mi avrebbero chiesto solo di quello, spostando l’attenzione dal film».
Il tema del film sembra la fine dell’antimafia, a sua volta sintomo di un caos più grande.
«È una versione molto per i poveri della Società dello spettacolo di Guy Debord, un mondo dove tutto si è azzerato. È un film su una tragedia in corso, la mafia, di cui non si parla più, se non nelle fiction: nella più felice delle ipotesi - ti prego di cogliere l’ironia - l’antimafia ha il volto di Pif.
L’idea, insomma, è che tutto è allo stesso livello: le fiction, le cerimonie istituzionali, i neomelodici».
Per vent’anni ha condiviso la carriera con Daniele Ciprì, da "Cinico Tv" al censuratissimo "Totò che visse due volte". Da tempo le vostre strade si sono divise. L’ha sentito in questa occasione?
«In una coppia c’è sempre uno che cova più risentimento dopo la separazione. In questo caso io, ovviamente. Questo risentimento si è diluito fino a scomparire. A volte Ciprì si fa vivo, con messaggi un po’ rigidi, che sembrano gli auguri che si inviano negli uffici per Natale. E qui scatta ogni volta un siparietto perché ho un cellulare di vent’anni fa e non registro i numeri, cerco di ricordarli a memoria. Ai messaggi di Ciprì rispondo: Chi sei? Lui: Daniele. Io: Grazie. Fine. Però rimangono quei vent’anni molto divertenti e molto… importanti».
Il film è un documentario o cosa?
«Credo sia banale cercare di distinguere: questo è vero, questo no. Il film ha una verità sua. Ho cercato di rappresentare la tragedia della mancanza di senso. E il solo strumento che avevo era il comico, il grottesco. Se poi uno mi chiede: a che serve? Dico: A niente».
Perché continua con i film allora?
«È una contraddizione che riconduco alla mia nevrosi, a una disperazione che ha come alternativa il suicidio. E poi, non sono stato parsimonioso e quindi se non lavoro non riesco a mettere insieme il pranzo e la cena. Umberto Saba disse una cosa bellissima: le vite delle persone sono come quando ti abbottoni la camicia. Se sbagli la prima asola, è finita. Io evidentemente l’ho sbagliata».
Il cinema per lei è morto?
«Non vado al cinema. Non sapevo chi fosse Marinelli. Di dieci registi contemporanei ne conosco forse uno. Delle persone sul tappeto rosso a Venezia conoscevo solo Julie Andrews. Ho 61 anni… Il piacere che mi danno John Ford o Billy Wilder non me lo potrà dare nessuno».
E adesso?
«Vorrei che qualcuno mi assegnasse un vitalizio, una specie di Bacchelli privata. Ecco, lancio un appello: cerco disperatamente un mecenate per non fare nulla».