ItaliaOggi, 10 settembre 2019
Oreste Ghidini non ha mai smesso di studiare l’apparato digerente e di suonare il violoncello
Nel maggio 1945, finita la Seconda guerra mondiale, Oreste Ghidini, 10 anni, tornò nella sua abitazione di Corticella San Paolo. Era stato sfollato a Pazzon. I suoi lo avevano mandato con la nonna sulle pendici del Baldo per salvarlo dai bombardamenti. Del vicino ponte Navi restavano solo i ruderi, così come di tutti gli altri manufatti sull’Adige che collegavano la città antica al resto di Verona, fatti saltare in aria dai nazisti in fuga. «Non c’era niente da mangiare», ricorda, «però in casa trovai uno strano aggeggio». Un violoncello.Il modo in cui l’«aggeggio» era arrivato lì dice molto circa le personalità di Canzio e Olga, i genitori, entrambi sarti per uomo. Per disperazione, avevano rovistato nella sede abbandonata della Provianda di Santa Marta, costruita dagli Austriaci nel 1865 in via Cantarane, che fino a poco tempo prima aveva distribuito pane, gallette e altri generi di sussistenza alle truppe del Terzo Reich. La madre era tornata a casa con una sporta di farina, il padre con lo strumento musicale. «È fatto con un legno tenero e sottile, l’ideale per accendere la stufa», aveva osservato la donna. «Eh no, questo non si tocca, servirà a nostro figlio per studiare la musica», obiettò il marito.
Trascorsi più di 70 anni, di cui 20 in Medicina generale all’ospedale di Borgo Trento al fianco dei professori Carlo Secco e Pier Francesco Baratta e poi, in veste di primario, 5 al Sacro Cuore di Negrar e altri 16 all’Orlandi di Bussolengo, il gastroenterologo Oreste Ghidini, 85 anni compiuti ieri, in pensione dal 2001, non ha ancora smesso di studiare l’apparato digerente e di suonare il violoncello. Non saprebbe dire quale delle due arti lo abbia catturato di più. Pur essendosi laureato in Medicina nel 1959, per poi specializzarsi anche in Ematologia, Cardiologia e Medicina interna, il pentagramma è rimasto nelle sue corde, è proprio il caso di dirlo. Infatti dal 2013 l’ex primario ospedaliero è presidente della Società Amici della Musica, che nei suoi 110 anni di storia ha organizzato ben 1.494 concerti, portando a Verona mostri sacri come i pianisti Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Nikita Magaloff, Géza Anda, Claudio Arrau e Maurizio Pollini, i violinisti Igor Ojstrakh, Salvatore Accardo e Uto Ughi, i chitarristi Andrés Segovia e Alirio Diaz, i clavicembalisti Wanda Landowska e Gustav Leonhardt, l’arpista Nicanor Zabaleta, il violoncellista Gaspar Cassadò, il flautista Severino Gazzelloni, il Quartetto italiano, i Solisti veneti, il Quartetto La Salle. Un notevole passo avanti rispetto allo zio Gerardo, che 70 anni fa era proprietario del Molin de le Asse, balera annessa all’osteria di via Cesiolo, prototipo delle odierne discoteche.
Perché le attenzioni dell’affamato capofamiglia si fossero rivolte a un «aggeggio» con intonazione intermedia fra quella della viola e quella del contrabbasso, anziché a una borsa aggiuntiva di farina, è presto detto. Canzio Ghidini, originario di Poggio Rusco, il paese natale di Arnoldo Mondadori, era giunto a Verona nel 1920 per seguire un fratello assunto l’anno prima dall’editore nel nuovo stabilimento tipografico di via San Nazaro. Nella capitale della lirica si era portato appresso la passione per la musica. Già prima della Grande guerra, appena quindicenne, andava in bicicletta fino a Mirandola per assistere alle opere nel teatro Nuovo, inaugurato nel 1905 con La Gioconda di Amilcare Ponchielli. «Se torno indietro con la memoria, rivedo il terzo atto della Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai, messa in scena a Ferragosto del 1939 all’Arena, cui assistetti con i miei genitori», rievoca Oreste Ghidini, «e risento “Giulietta mia! Giulietta mia!”, mentre sul palco i cavalli girano attorno a un pozzo. Non avevo ancora 5 anni».
Il dottor Ghidini ha trasmesso la passione per la medicina e per l’arte anche alle tre figlie (la maggiore è ginecologa a Borgo Trento e la minore tecnico di laboratorio nello stesso ospedale, mentre l’altra disegna accessori di moda e copertine per libri) e soprattutto al nipote Matteo Bovo, figlio della primogenita, violinista uscito dal Conservatorio Dall’Abaco di Verona e perfezionatosi all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, che a 28 anni suona nell’Orchestra Haydn di Bolzano. «Invece mia moglie Marisa Cottini, originaria di Fumane, dopo 55 anni di matrimonio continua a suonare il pianoforte in cucina».
In cucina?
Un detto veronese. Sonàr el piàno significa lavare i piatti.
Da quando suona il violoncello?
Dal 1946. Mio padre m’iscrisse al Civico liceo musicale. L’esame di ammissione me lo fece il maestro Pietro Bottagisio, brava persona e fine compositore. Anche se all’epoca era noto per un episodio ridicolo.
Cioè?
Durante un concerto gli si sganciarono le bretelle e rimase in mutande sul podio. Io non c’ero, quindi ignoro se la storiella sia vera.
Diciamo che è ben inventata.
Bottagisio mi chiese: «Ti piace la musica?». Intervenne mia zia, che mi accompagnava: «Me par ch’el g’àbia récia». «Sapresti cantarmi la scala?», riprese il maestro. E io: do, re, mi, fa, sol, la, si, do, do, si, la, sol, fa, mi, re, do. «Bravo, bravo, ammesso», concluse. Questo fu l’esordio. Interruppi nel 1956, quando m’iscrissi all’Università di Padova. Esercitarmi nella Casa dello studente sarebbe stato impossibile. Ma poi una sera si presentò nella mia abitazione il professor Francesco Benciolini, primario otorinolaringoiatra. Lo mandava Làszlò Spezzaferri, successore di Bottagisio, il maestro che nel 1968 avrebbe trasformato il Civico liceo musicale in Conservatorio. «Spezzaferri mi ha detto che lei se la cava bene con il violoncello», esordì Benciolini. «Verrebbe a suonare a casa mia?».
Dava una festa?
No, mi inseriva in un quartetto formato da lui, violinista, da Renato Bonetto, che suonava la viola, e da un protestante valdese che era primo violino all’Arena: si trattava del padre di Arrigo Cavallina. (Il futuro fondatore dei Proletari armati per il comunismo, poi dissociatosi dalla lotta armata, che reclutò Cesare Battisti, ndr).
Anche Arrigo Cavallina suona. Il flauto, come il nonno. E nel salone di casa tiene una spinetta.
Benciolini fu per 35 anni presidente degli Amici della Musica. Aveva lo studio al numero 13 di vicolo Pomodoro, che oggi è la sede del nostro sodalizio. Dopo sei giorni tra corsia e ambulatorio, alle prese con nasi e tonsille, al settimo ci chiamava a suonare Mozart, Beethoven e Brahms a Palazzo Canossa, quello affrescato dal Tiepolo. Il primario abitava al primo piano. Era un appuntamento fisso della domenica pomeriggio, tanto che mia moglie a un certo punto si stufò: «Scegli! O me o Benciolini».
Posso immaginare.
Lo vedevo piangere mentre eseguiva il secondo tempo del Quartetto per pianoforte di Robert Schumann.
Ma non eravate quattro archi?
Intanto si era aggiunto l’ingegner Bruno Abati, pianista, la cui sorella, Teresa, mia insegnante di matematica alle medie, aveva sposato il famoso pittore Angelo Zamboni, che morì a soli 43 anni. Il loro figlio, Piero, è stato direttore del Coro scaligero dell’Alpe per un quarantennio, fino al 2002.
Alla fine Benciolini sarà andato in pensione, sia come medico che come musicista, suppongo.
Certo, e allora insieme a un altro medico, Franco Padovani, che suonava la viola, formai un quartetto con Pio Cavalleri, dentista, e Carlo Toppan, violinista in Arena. Per 25 anni vennero a suonare ogni giovedì sera a casa mia, non ho mai capito se attratti dalla musica o dalle torte che preparava mia moglie. Finché non apparve all’orizzonte il maestro Enrico De Mori. Lo conoscevo fin da quando frequentavamo il Civico liceo musicale. Era diventato direttore dell’orchestra per i balletti alla Scala di Milano. Un mago nel mettere i tempi musicali sulle gambe dei ballerini. Sto parlando di Rudolf Nureyev, Carla Fracci, Luciana Savignano, Liliana Cosi. Seguii la sua Orchestra Città di Verona in varie avventure, dal Mozarteum di Salisburgo alla chiesa dei Frati Minori di Vienna, dove celebrammo i 150 anni dalla nascita del legnaghese Antonio Salieri. Un violoncellista che era anche medico si rivelò assai utile, perché nelle trasferte c’era sempre qualche orchestrale che stava male.
E con l’ospedale come faceva?
Per un’Aida a Parigi mi presi un intero mese di ferie. Sfida bellissima, voluta dall’allora sindaco conservatore Jacques Chirac, che dal Palais Bercy faceva la guerra con la lirica al presidente socialista François Mitterrand, patrocinatore di eventi all’Opéra Bastille.
La prossima stagione degli Amici della Musica quando inizia?
Il 14 ottobre con il pianista Pietro De Maria: 14 concerti fino ad aprile, al teatro Ristori. Arriveranno il violoncellista Mario Brunello, l’ottetto dell’Orchestra sinfonica della Rai e il russo Alexander Malofeev, pianista prodigio diciottenne.
Che c’entrava la convertita Claudia Koll, ex diva a luci rosse lanciata da Tinto Brass, che avete invitato in passato?
Recitava in Evangelium, una storia di Gesù scritta per i bambini con musiche di Mario Castelnuovo Tedesco, compositore ebreo fiorentino che dopo l’avvento delle leggi razziali trovò rifugio negli Stati Uniti, dove allevò vari musicisti premiati con l’Oscar, quali John Williams, Jerry Goldsmith e Henry Mancini, l’autore di Moon River per il film Colazione da Tiffany.
Quanti soci siete?
Poco più di 300.
E vi autofinanziate?
Sì, con una quota annua dai 130 ai 150 euro, che scende a 50 per i giovani. Con l’Arena, siamo l’unico ente scaligero riconosciuto dal ministero dei Beni culturali. Ci vengono in aiuto anche le fondazioni Cariverona e Giorgio Zanotto, il Comune, il Banco popolare e gli imprenditori Giuseppe Manni e Alberto Perini.
Con quanto anticipo vi muovete per reclutare i mostri sacri?
Spesso due anni prima.
Perché si chiama musica da camera?
Perché si suonava con pochi strumenti in ambienti ridotti, nelle residenze di re, principi e signorotti.
O perché concilia il sonno?
Anche. A me non è mai capitato di appisolarmi durante un’esecuzione. Ma le Variazioni Goldberg furono chieste a Johann Sebastian Bach da un clavicembalista che aveva disperato bisogno di uno spartito per combattere l’insonnia del suo datore di lavoro Heinrich von Brühl, primo ministro dell’elettorato di Sassonia, il quale riusciva ad addormentarsi solo se gli suonavano qualcosa.
Agli Amici della Musica nessuno ronfa?
No. Però ho assistito a episodi divertenti di altro genere. Sala Boggian di Castelvecchio, ospite il pianista tedesco Walter Gieseking. Si siede, suona due o tre note e subito si ferma: «Uno momento». Si guarda attorno, vede un posacenere di vetro, lo afferra e lo mette sotto una gamba del pianoforte: «Adesso bene». E attacca la Marcia turca di Mozart. Un’altra volta si stavano esibendo il violinista Franco Gulli e la moglie Enrica Cavallo, pianista. Saltò la corrente elettrica. Brusio in sala. E loro due, imperterriti, continuarono a suonare nel buio pesto.
Un concerto memorabile?
Ricordo il Quartetto Italiano nel febbraio del 1953, sempre a Castelvecchio. In sala c’erano appena 25 persone, perché quella sera al teatro Nuovo dava spettacolo José Iturbi, celeberrimo pianista spagnolo che aveva interpretato sé stesso in vari musical hollywoodiani. Il Quartetto ci conquistò con l’Opera 59 numero 3 Rasmovsky di Beethoven. All’uscita trovammo Verona imbiancata da una nevicata. Indimenticabile.
Aver studiato musica l’ha aiutata nella professione medica?
Moltissimo. La musica è ordine: uno due, uno due, uno due tre. Offre un metro per farti arrivare alla diagnosi.
Perché ha fatto il medico?
Al liceo Messedaglia ebbi un bravissimo insegnante di Scienze, Francesco Peruffo, che mi fece amare le cellule, l’anatomia, la chimica. Grazie a lui, arrivai alla laurea in Medicina con 110 e lode.
E perché si è specializzato in Gastroenterologia?
Per amore di Baratta, imbattibile nel curare le malattie del fegato, cresciuto alla scuola del professor Mario Coppo, epatologo di Modena, fra gli allievi prediletti del grande Cesare Frugoni.
Mai pensato alla chirurgia?
Mai. Non che mi faccia paura il sangue. Però non mi piaceva smontare i corpi. Fra aprire e non aprire c’è una bella differenza. I chirurghi spesso eccedono in interventismo.
Che cosa glielo fa pensare?
La storia. Appena finita la Seconda guerra mondiale, il violinista Tibor Varga fu chiamato a suonare alla Wiener Konzerthaus. Mancavano i vetri alle finestre. A causa del gelo gli si congelarono le mani. Quando i medici gli annunciarono che dovevano amputargli il mignolo sinistro, scappò dall’ospedale: sarebbe stata la fine della sua carriera. In seguito recuperò l’uso del dito.
Il gastroenterologo è più alle prese con i borborigmi che con le note musicali.
I primi non differiscono molto dalle seconde. Bisogna saperli ascoltare. Infatti un caricaturista mi ha effigiato mentre con l’archetto suono un apparato digerente. Non le dico da dove escono le note.
Quali sono i primi nemici dell’intestino?
Le infezioni batteriche e i dismicrobismi che attaccano la flora. Nelle nostre viscere abbiamo circa 2 chili di germi, in parte utili e in parte dannosi, il cosiddetto microbiota, essenziale per l’equilibrio immunitario. Se Giuseppe Verdi fosse riuscito a controllare la sindrome del colon irritabile, chissà quante altre opere liriche ci avrebbe lasciato.
L’intestino è davvero il nostro secondo cervello?
Spesso il primo, lo scriva pure.
L’Arena