il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2019
Cronache sparse di Ennio Flaiano
Chi va al teatro o al cinema di questi tempi si accorge che al di sopra delle guerre, delle riforme e dei fenomeni che sconvolgono il mondo rimane sempre l’Ottimismo. La gente si diverte senza sospetto. È nel suo diritto, d’accordo; ma ci fa pensare troppo a quel signore che non sapendo che era cominciato il diluvio universale era incerto se prendere o no l’ombrello.
Nel ridotto del teatro preferito dal pubblico elegante le vetrine della pubblicità insegnano come ci si deve vestire, qual è la casa che l’uomo moderno deve abitare e di quali oggetti deve, possibilmente, riempirla. Come pesci nelle vasche, i misteriosi soprammobili di vetro e di metallo guardano lo spettatore mettendogli addosso quel disagio che si prova ad essere fissati da un animale. L’ottimismo dei grossi soprammobili moderni, la loro aria florida, conclusiva e “architettonica” serve a farci sembrare più malfatti di quanto siamo. Un disagio parallelo lo dà il palcoscenico dove si svolgono storie che nel loro semplicismo hanno qualcosa di lugubre.
Passeggiando nel ridotto guardo una signora che sfoglia un giornale e per la prima volta vedo – come ci accade di vedere e capire improvvisamente il significato di una cosa a cui siamo abituati – vedo i titoli che parlano di bombardamenti terribili e necessari.
“Documento”, maggio 1941
Alcuni anni fa circolava una curiosa facezia, e cioè che le iscrizioni all’antifascismo erano chiuse. Tuttavia la valanga degli antifascisti aumentò ogni giorno al punto che non si trovò più un tale disposto a difendere la mistica fascista tanto da poter – accademicamente – tener desti e allenati i nostri argomenti. Oggi le conversioni seguono addirittura l’andamento di una progressione geometrica; e sommano ormai a tante che potremmo guardare all’avvenire con una certa fiducia, se… Insomma, l’Italia non dovrebbe, stando ai primi calcoli, produrre più un fascista sino alla fine dei secoli, ma soltanto antifascisti.
Molte conversioni sono sospette? Forse. Quel che ci fa dubitare della generale sincerità è la leggerezza con la quale ci si converte, la precarietà degli argomenti addotti, che spesso sono argomenti fascisti rivoltati. C’è molto traffico sulla via di Damasco e troppi Saul si disarcionano al minimo scarto dei loro cavalli. E questi cavalieri hanno veramente sentito la voce di Dio (o della coscienza), oppure si gettano da cavallo per rimanerci poi a visione trascorsa? Le prove che quotidianamente ci offrono vecchie conoscenze bastano a illuminarci.
Uno dei caratteri dell’italiano è la facilità con la quale prende le sue risoluzioni. Molta gente oggi non sospetta nemmeno che farebbe meglio il suo dovere verso l’Italia restando “fascista” piuttosto che ripudiando per paura una dottrina che per vent’anni ha reso valida col suo consenso. E non si dica che con ciò auspico il ritorno dei fascisti; e non mi si opponga che di fascisti ce ne sono già troppi: vorrei soltanto che la gente credesse a qualcosa, al di fuori del suo tornaconto. Tutti i problemi d’ordine politico che oggi ci agitano saranno risolti il giorno stesso che la maggioranza degli italiani deporrà quel suo cinismo che l’induce sempre dalla parte del più forte, verso gli oratori, verso le schiere più ricche di gagliardetti.
“Risorgimento Liberale”, 1° settembre 1944
Il concetto di simbolo di prestigio è difficilmente definibile in un paese come l’Italia dove, per esempio, l’infima macchina utilitaria, la 500 Fiat, viene proposta in due versioni: normale e di lusso. O dove la donna a ore spende l’equivalente del suo salario di un anno per la comunione o la cresima del figlio. O dove il mendicante che viene ogni sabato a prendere il suo obolo arriva un bel giorno con la bomboniera delle sue nozze d’argento. Dove, in altre parole, i vari strati sociali sono in continua reciproca imitazione e sommovimento, e le feste più illustri sbracano a un certo punto nella spaghettata; e ciò che fa il monaco è esclusivamente l’abito. Un paese, infine, dove si pubblicano infiniti “Who’s who?”, uno dal titolo quasi dialettale “Lui, chi è?”: i quali tutti servono per la vanità di piccoli professionisti e poeti regionali, o di industriali allo stato brado, deputati scaduti, miss degli anni scorsi, mostri televisivi, direttori di società sportive o semplici neo-dottori. Un paese dove appunto il titolo di dottore è finito nei parcheggi.
“L’Espresso”, 30 agosto 1970
Se c’è qualcosa che ci trattiene dal morire è lo spettacolo dei funerali che trotterellano nel traffico, intralciandolo, correndo agli incroci, prendendo infine al galoppo l’ultimo tratto libero, parallelamente ad un tram sul quale i passeggeri non sanno se alzarsi, star seduti, segnarsi o continuare a leggere il giornale.
“L’Espresso”, 18 ottobre 1970
(tratto da “L’occhiale indiscreto”, Ennio Flaiano, Adelphi 2019)