La Stampa, 10 settembre 2019
Roma 1943, i Reali carabinieri traditi dal Duce
Se è stranoto che cosa accadde l’8 settembre 1943, settantasei anni fa, quando fu dichiarato alla radio l’armistizio - il governo e il re scapparono alla chetichella dalla Capitale, le forze armate furono abbandonate alla reazione feroce dei nazisti -, pochi sanno che il 9 cominciava la battaglia per la difesa di Roma. Pochi eroici reparti dove oggi c’è l’Eur, e poi alla Garbatella e a Porta San Paolo, si batterono per un giorno e una notte contro i paracadutisti tedeschi che avanzavano. C’erano i granatieri e pochi carristi. Alle 23, ai comandi arrivò un SOS disperato. Servivano rinforzi. Si raschiò il fondo del barile. E i carabinieri gettarono in battaglia gli allievi della Scuola, tutti tra i 18 e i 20 anni, al comando di pochi ufficiali veterani.
Alla Magliana i giovanissimi carabinieri, e poi altri 200 che li rimpiazzarono, si batterono come leoni. Alte le perdite, in morti e feriti. Tante le medaglie al valore che fioccarono. Fu però un sacrificio vano. E da quel momento per i tedeschi fu chiaro che l’Arma, fedele al re, come da giuramento, era nemica.
Immancabile, dopo la battaglia, venne la vendetta. Ce la racconta Maurizio Piccirilli, giornalista e saggista, nel suo nuovo libro Carabinieri Kaputt! I giorni dell’infamia e del tradimento (ed. All Around, pp. 128, € 14): il 7 ottobre, con un tranello ordito dal governo repubblichino, i Reali carabinieri di Roma furono disarmati, comandati nelle loro caserme e catturati dai nazisti. Dieci giorni prima del rastrellamento e la deportazione degli ebrei romani, uguale sorte toccò a loro. Anzi, la prima deportazione fu propedeutica all’altra.
Per duemila militari dell’Arma, caduti nelle mani dei nazisti, cominciò un’incredibile odissea. Il disarmo e l’arresto dei carabinieri arrivò per volontà dello stesso Mussolini, appena liberato dai nazisti. Anche lui li considerava nemici di cui disfarsi. Scriveva in una lettera a Claretta Petacci, ai primi di ottobre: «I carabinieri sono stati dovunque lo strumento raffinato e crudele del regime badogliesco».
L’Italia a quel punto si è divisa a metà. Chi è con il cuore di qua, chi di là. Ricorda il maggiore Alfredo Vestuti, uno dei deportati: «Eravamo un ingombro, un ostacolo per i nazifascisti, eravamo testimoni da eliminare, eravamo l’unica protezione per le popolazioni avvilite e stanche. E decisero di disfarsi di noi».
I nazisti già programmavano la deportazione degli ebrei romani. Negli archivi si trovò un telegramma del comando Gestapo a Herbert Kappler, che chiedeva più tempo per organizzare la loro deportazione: «Rinviare l’espulsione dei suddetti ebrei al completamento delle operazioni di disarmo dell’Arma dei Carabinieri e dell’esercito italiano è una ipotesi che non può essere presa in considerazione».
Fu il tempo del tradimento, allora. E dell’infamia. I carabinieri che avevano difeso Roma erano destinati al campo di concentramento: esecuzioni sommarie, fame, malattie, stenti, tortura, lavoro in schiavitù.
Il viaggio verso i Lager avvenne in carrozze piombate, e durò giorni e giorni, in un assurdo girovagare per l’Italia settentrionale e poi la Francia meridionale. Molti italiani scoprirono così di che pasta erano i nazisti. Piccirilli cita il diario del maresciallo Dario Sabatini, qualifica scrivano, che è fedele cronista di quei mesi: «Nove ottobre, Genova Sampierdarena. Stiamo su un cavalcavia, le porte vengono aperte. Si raduna una piccola folla incuriosita e segnata per lo spettacolo inusitato. La tradizionale generosità della gente si esprime unanimemente con offerte: frutta, pane, sigarette, vino. Doni tanto più graditi in quanto trattasi di generi razionati.... La folla aumenta, donne bambini uomini si prodigano nel raccogliere indirizzi che noi diamo perché vengano date notizie ai familiari». Il giorno dopo, nuova sosta a Diano Marina. «Lo spettacolo attira l’attenzione di passanti, la voce si espande a una piccola folla accorsa. Tutti rimangono stupiti nell’apprendere che i carabinieri sono imprigionati».
Finiranno in diversi campi di concentramento. Uno è Moosburg. «Il campo è nudo, c’è una unica bocca di acqua che funziona, pompata a mano una mezz’ora al mattino e altrettanto tempo al pomeriggio e sera. Ciò deve bastare ai bisogni di un migliaio di uomini. I gabinetti consistono in un profondo solco scavato al centro del campo, solco che emana un lezzo nauseabondo, non interrotto durante la consumazione dei magri pasti».
Furono storie di eroismi, di fughe riuscite o solo tentate, di violenza bruta, di morte. Non c’è una contabilità precisa di chi fu catturato e di chi riuscì a tornare. Morirono in tantissimi. Uno che riuscì a tornare si chiamava Augustale Del Sette, da Graffignano (Viterbo). Fu inviato in una miniera di magnesite, la Veitscher Magnesitwerke, a spaccare pietre. Suo figlio, anche lui arruolatosi come carabiniere, si chiama Tullio ed è stato comandante generale dell’Arma.