Corriere della Sera, 10 settembre 2019
Dialogo tra Emilio Isgrò e Germano Celant
GERMANO CELANT — A ben vedere la cancellatura non è un azzeramento, ma un sollevare la domanda sulla rappresentazione. È un gesto quasi rivelatorio di una dialettica tra sopra e sotto, fuori e dentro, parola e immagine. Al tempo stesso, nel seguire un metodo di «offuscamento» che oscilla tra il casuale e il progettato – che si è rivelato diverso nel tempo, dal 1964 ad oggi, arrivando a coprire intere frasi, proverbi e nomi, racconti ed enciclopedie, quanto figure e fotografie —, si è attuato quasi sempre su una dimensione del comunicare, non mettendo in atto la morte delle parole, ma mutandone l’urto visuale. La sottrazione della scrittura, che si traduce ora in immagine, ha forti analogie con la scoperta del silenzio di John Cage o con lo sguardo rivolto all’insignificante e all’invisibile che è stato professato da Fluxus, da Walter De Maria a George Brecht: una mobilitazione dell’attenzione.
EMILIO ISGRÒ — Oggi vedo la cancellatura in un modo completamente opposto a come la si vede in genere: non si tratta infatti di un gesto distruttivo sia delle parole sia delle immagini e del segno iconico. Non ho guidato io la cancellatura ma, avuta la prima intuizione nei primi anni Sessanta, mi sono lasciato guidare da essa, nel senso che essa dettava le regole. La percepisco come grande creatrice di segni iconici, e di immagini, ma non di segni astratti come poteva essere una certa arte concreta, una certa letteratura delle avanguardie, bensì di segni potentemente comunicazionali: quindi anche, paradossalmente, figurali. Questa è una contraddizione che la cancellatura salda in sé stessa perfettamente.
Ora tuttavia mi aspetto che sia il mondo a spiegarmi che cosa ho fatto fino in fondo, perché è giusto che un artista non lo sappia, se no non sarebbe tale. La cancellatura salda astrazione e concretezza e, secondo me, non è uno stile ma un linguaggio. Se si guarda un’opera informale, anche le più potenti di Jackson Pollock o di Mark Rothko, alla fine diventano emblema di uno stile, pur salvaguardando la grandezza dell’artista che c’è dietro. La cancellatura invece è un linguaggio, l’altra faccia della pittura e della scrittura, per questo ho potuto adoperarla fino ad oggi senza esserne completamente spiazzato, nel senso che era come imparare a parlare dal niente. Io mi resi conto che quando facevo le prime cancellature queste rischiavano di essere appannaggio delle nuove e delle vecchie avanguardie, e il mio amor proprio, che coincideva con uno spirito innovativo che alla mia epoca era pressoché naturale, mi fece capire che dovevo liberarmi da ogni retaggio neo e vetero-avanguardistico.
CELANT — In ogni caso l’aspetto dirompente, a metà degli anni Sessanta, non viene affidato al contenuto dell’opera ma al processo con cui viene messa in scena, tanto che i lavori riducono il loro impatto visivo impegnandosi sulla monocromia, dal bianco di Robert Ryman al nero e al rosso di On Kawara, dallo schermo di Mario Schifano a quello di Fabio Mauri. Sembra quasi che gli artisti tendano a citare il riduzionismo fenomenico dei nuovi media, come la televisione e la fotografia. Di fatto l’interesse verso questi media è già insito nella Pop Art, in particolare nella produzione meccanica e seriale, e rispecchia l’applicazione di un sentire artificiale e impersonale, come in Andy Warhol. È una nullificazione non più del messaggio, ma dell’attore-artista che evita la partecipazione personale per affidarsi a un’estetica impersonale. Di fatto anche le cancellature d’immagini, da Jacqueline Kennedy a Fidel Castro e a Karl Marx, sottratti allo sguardo mediante superfici grigie o gialle o rosse, fanno ricorso a uno sviluppo industriale: la carta fotografica. È l’«appropriazione» di una figura iconica, popolare, per renderla un fantasma immaginario, evidenziato da un segnale, la freccia, che induce alla sua «ricerca», che è tuttavia soltanto interiore. Il tuo monocromo è nuovamente «rivelatorio», funziona da «maschera» per cui l’osservatore è spinto a scoprire la figura-volto che sta sotto.
ISGRÒ — Prendiamo quelli che possono essere considerati come monocromi classici del mio lavoro anche se vanno letti con più ampiezza. Prendiamo ciò che più assomiglia al monocromo, dalla serie di Alma in poi. Schifano realizzò dei monocromi, Piero Manzoni i suoi Achromes. Hai visto mai associare una scritta ai loro monocromi come invece ho fatto io? Che bisogno c’era di scrivere «Alma (a sinistra) corre nel rosso vestita di rosso»? Se penso a On Kawara o a Roman Opalka, che elencano date su date e numeri su numeri, che differenza c’è con l’ossessione della cancellatura? Il Cristo cancellatore, ad esempio, alla fine di ogni puntata «continua»...
Se c’è qualcosa che mi ha distanziato dal concettuale, è stato secondo me il suo eccesso di mentalismo, troppa testa. La cancellatura era anche una cosa un po’ di pancia, era una cosa eclatante. Allora a un certo punto mi sono detto: “Ma se un artista è solo intelligente, cosa ci fa al mondo?”. Per questo bastano i filosofi, gli economisti di un certo tipo. Un artista, in qualche modo, deve essere capace di mettersi la propria intelligenza sotto i piedi nel momento in cui non gli serve. Deve riflettere prima, mai mentre fa l’opera, e neppure dopo.
CELANT — Sotto la stesura univoca di un colore sboccia quindi la parola o la figura. Se Manzoni e Yves Klein si muovevano verso l’affermazione di una superficie auto-significante e auto-rappresentante, nel senso che adottavano tecniche di realizzazione dove il caolino – in Manzoni – essiccandosi, produceva e fissava le forme oppure – in Klein – il rullo e l’impronta definivano una traccia di un passaggio spirituale o carnale, la tua trasformazione tende a una supposta sintesi tra visibile e invisibile, palpabile e a-fisico.
Il tracciare una superficie nera o monocroma su una parola o su un’immagine rende corporale e palpabile l’assenza di tali entità invisibili. Come abbiamo sottolineato, il risultato deriva da un equilibro tra le due epidermidi che si toccano, per cui la cancellatura sprofonda nell’identità altra e viceversa. La negazione è metamorfosi, mette in scena una teatralità di entrambe, come nel quadrilatero o nel cerchio nero di Malevich che spettacolarizza il bianco. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’oscuramento dello schermo attuato da Jean-Luc Godard, in Week-end, 1967, in cui interrompe la proiezione di immagini, facendo entrare in campo il nero così da sottolineare la modalità illusoria del cinema e il valore del racconto figurale. Lo fa regredire al suo stato oscuro: un ribaltamento dell’apparenza normale del film che smaschera la sua irrealtà, immettendo il silenzio e il nero. Usa l’urto comunicativo per interrompere il flusso narrativo e far emergere l’altra epidermide della proiezione luminosa.
ISGRÒ — I miei interessi erano prevalentemente letterari all’epoca, Malevich lo conoscevo poco, quando l’ho visto in seguito mi ha parlato come un incanto. La cancellatura di per sé esiste da sempre, ad esempio nei manoscritti. Ma quello che ho fatto io è stato esplicitare la cancellatura e farne un linguaggio. Ho cercato di trasformare un’eccezione in una norma. La cancellatura nasce da un’intuizione, come se me la fossi sognata. La prima cancellatura risale al ’62. Ne parlai a un mio amico collezionista e mi disse: “Sei pazzo?”. Mi trovavo bene nel mondo della letteratura, non avevo il coraggio di esporla. Alla fine lo feci.
CELANT — La Pop Art immette nell’arte una strategia d’uso e di appropriazione della comunicazione di massa. Si lascia influenzare dal linguaggio del cartoon e della pubblicità. Si appropria dei loro stereotipi e fa collassare il soggetto intellettuale per cercare una somiglianza con il mondo artificiale e simulato dei media. Mettere in connessione la poesia con la cronaca del giornale oppure l’inserto promozionale di un’automobile ti ha permesso di compiere una disgressione dalla scrittura manuale a una stesura meccanica, quella della rotativa, che si affidava a un inchiostro tipografico nero. È forse da questa liquidità monocroma che scaturisce la tua copertura, a mano, delle parole. Nuovamente un concatenamento e un equilibrio tra due logiche immaginarie, pubblica e privata. È la messa in discussione di un allineamento processuale unico, così che i compartimenti identitari, tra immagine e parola, poesia e arte, iniziano a cadere. O meglio cominciano a riconoscersi l’uno nell’altro. Stabiliscono un rapporto aperto, in nome della comunicazione.
ISGRÒ — Non ho mai negato la comunicazione come uno dei fini dell’arte e non perdevo di vista che stranamente le mie opere cominciavano ad assumere anche uno spessore pittorico, sono arrivato a cancellare le immagini come Il buon seminatore e mi accorgevo di andare in quella direzione. Cosa è cambiato oggi? Oggi so perfettamente di saper fare il pittore. Sono molto attento a che non prevalga solo il significato delle parole, facendo in modo che nello spazio del libro abbiano un loro equilibrio. A un certo punto mi sono accorto che le parole avevano troppo peso. Allora come potevo agire? Mi inventai un tipo di velatura che offuscava le parti verbali che dovevano emergere meno per mia scelta. Questo era chiaramente un discorso pittorico e lo sapevo. Però ho sempre resistito dal precipitare le cose pensando che alcune cose avrei dovuto farle solo da vecchio, e così ho fatto. Il mio lavoro è sostanzialmente ridire la stessa parola riportandola alle origini del linguaggio. La cancellatura è un’immagine essa stessa, è un segno iconico sia nel suo complesso sia singolarmente. Non ho mai abusato di questa tecnica fino a toccare punte di informale. Avendo una concezione dell’arte anche come forma di pedagogia umana, sono stato cauto in ciò che sviluppavo e proponevo.
CELANT — Arrivando agli ultimi decenni, la carezza della cancellatura si trasforma nella leggerezza di icone d’animali, dalla farfalla alla formica. La banda o il nastro di copertura si fa meno rabbioso e nichilista. La linea di contatto si fa rarefatta e lascia intravedere sempre più il sotto. Come se le frasi che emergono dal mare delle increspature monocrome diventino più aerate. Tanto che dal 1972 cominci a usare il bianco per animare le immagini e le parole, le fotografie o i loro particolari allargati in maniera esponenziale, come in Particolare e Particolare di Elvis Presley, 1972. L’effetto è la “personificazione” di un dettaglio, così da mettere in atto una fuga dal documento, come era successo con Jacqueline e Lin Piao, e l’entrata in una rappresentazione invisibile, ma possibile. Il mandato intellettuale di un’arte di concetto che permette però l’emergenza di un’esperienza sensuale e ottica. Nuovamente non più una negazione, che ha costituito il fine della modernità sperimentale e delle avanguardie storiche, ma un proseguimento di ridefinizione dell’immagine, che si nutre di una trasformazione comunicativa e informativa.