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 2019  settembre 08 Domenica calendario

Intervista a Gaia Servadio

Davanti a un’insalata di riso, nella penombra di una allegra cucina in una casa della campagna umbra, Gaia Servadio sembra improvvisamente spogliarsi dei suoi ricordi, che sono ricchi di persone talentose e di esperienze talvolta uniche. Dopo un paio d’ore di conversazione, in cui il tintinnio delle parole risuonava armonioso, eccola alle prese con una terra arsa dal sole, l’acqua che scarseggia, e la solitudine che accarezza il vasto paesaggio e lascia lievemente attoniti. Londra è ormai diventata la sua patria e l’Italia una gradevole dependance dove alleggerire i pesi che l’inverno inglese, fatalmente, carica sulle spalle. Gaia ha tre figli, un secondo matrimonio con un uomo deliziosamente discreto e un congruo numero di libri alle spalle. Il primo, il romanzo Tanto gentile e tanto onesta pare, decretò quasi per caso il successo letterario. L’ultimo è la storia di Giovanni Battista Belzoni: egittologo, avventuriero, esploratore e uomo di invidiabili risorse mentali e fisiche. Diventò famoso in Inghilterra anche grazie alle ammirate descrizioni di Charles Dickens e Walter Scott. Mi chiedo se nel ripercorrerne la vita Gaia non abbia trovato in lui argomenti e gesti consimili al suo carattere.
A leggere ciò che scrive, dà la sensazione di trovarsi a suo agio solo con gli argomenti nei quali rivede una parte della sua vita.
«Mi piace pensare che la scrittura catturi qualcosa del mondo che amo e nel quale mi riconosco. Ho scritto di Rossini perché mi identificavo nella sua musica, nel suo inimitabile umorismo; ho scritto di Visconti perché è stato l’italiano più sui generis che abbia conosciuto; ho scritto di Belzoni perché fu incapace di adattarsi alle convenzioni. In ognuna di queste storie, come in altre, c’è una parte di me».
Lei giunse in Inghilterra negli anni Cinquanta.
«Arrivai in un paese che faceva fatica a riprendersi.
Londra era una città cupa e povera. Dai vestiti al mangiare, non si trovava nulla. Ricordo che mia sorella mi spedì una cassetta di arance. Fu un evento che scalfì la durezza del momento che attraversavo. Venivo da Parma, una città a misura della gente. Frequentavo, malgrado la giovane età, Attilio Bertolucci, Enrico Medioli, Luigi Magnani. Una provincia colta ma asfittica. E a volte maldicente. Londra era l’esatto opposto e all’inizio ne ebbi paura».
Cosa faceva a Londra?
«A 18 anni studiavo arte figurativa alla St Martin’s School of Art, nel cuore di Charing Cross. Mi piacevano la grafica e il giornalismo. Cominciai con delle piccole corrispondenze per la Gazzetta di Parma e poi ebbi l’occasione di scrivere per il Mondo di Pannunzio».
Lo ha conosciuto?
«Nel timore di dire le cose sbagliate restai intimidita l’unica volta che lo vidi. Mio padre conosceva Ernesto Rossi, il suo più stretto collaboratore. Per me era solo un nome».
Suo padre di cosa si occupava?
«Era un chimico. Ma si era laureato in fisica. Veniva dal gruppo di Enrico Fermi. Ma poi scelse di specializzarsi in chimica. Divenne amico di Primo Levi, anche lui chimico, oltre che scrittore. La nostra famiglia, di origine ebraica, durante la guerra fu perseguitata. Dal campo di concentramento ci salvò un carabiniere, fidanzato di una nostra tata. Riuscimmo a scappare in tempo prima che i tedeschi ci arrestassero. Dopo la guerra si parlò pochissimo di quello che era accaduto agli ebrei. Per lungo tempo ci fu una specie di rimosso».
Perché?
«Quelli che si erano salvati volevano dimenticare. E poi chi li avrebbe creduti? Per anni non riuscii a pronunciare il mio nome. Ne avevo vergogna. Come quando a scuola durante l’appello scandivano “Servadio” e io mi nascondevo, convinta che quel nome fosse infamante. Quando finalmente riuscii a scrivere della nostra vicenda familiare incontrai l’ostilità di mia madre e di mia sorella. Solo mio padre, ormai moribondo, mi disse che era giusto che raccontassi quella storia. Ora sto lavorando a un nuovo romanzo sulla storia di tre generazioni di ebrei».
Come ha imparato a raccontare storie?
«Per me è stato un misto di ambizione, di volontà e di occasioni che hanno favorito questa piccola vocazione. Il primo incontro significativo che feci a Londra fu con un editore importante, George Weidenfeld. Fu lui a introdurmi negli ambienti letterari. Una svolta in tal senso fu conoscere il direttore letterario dell’ Observer , Terry Kilmartin. E poi Alberto Arbasino che fu per me il grande e involontario educatore. La prima immagine che ho di lui sono gli occhi un po’ mongoli, le mani piccolissime e le sgargianti camicie attillate che indossava. Mi colpiva l’assoluta disinvoltura con cui si era calato nel mondo che avevo cominciato a frequentare».
Gli stava a pennello.
«Alberto era uno dei pochi italiani che poteva vantare un’autentica mise internazionale. Una volta ero a Nizza e lui arrivò al volante di una fiammeggiante MG decappottabile. Ero con Mary McCarthy, ci fece segno di salire. Andammo in direzione di Saint- Tropez, scappavamo felici da un noiosissimo convegno di editori».
Come aveva conosciuto la McCarthy?
«Fu il mio primo marito, Willy Mostyn-Owen, a presentarmela. Sospetto fosse stata la sua amante.
Willy parlava un buonissimo italiano, era stato assistente di Bernard Berenson e conosceva bene Mary che adorava il mondo dell’arte. Con Willy ci sposammo dopo un breve corteggiamento. Era un vero aristocratico, afflitto però da un senso di frustrazione dovuto a un padre che lo considerava una mezza calza. In comune avemmo la passione per i viaggi e per la musica. Non molto altro».
Certamente anche i figli e una serie di conoscenze.
«I figli sì, le conoscenze col tempo divennero mondi separati. Finimmo nell’infedeltà reciproca, nel disprezzo reciproco, nella noia reciproca. L’unica soluzione fu il divorzio. Fece bene a entrambi.
Sicuramente a me, che consolidai alcune amicizie interessanti».
Una di queste fu con Philip Roth.
«Conobbi Roth a un pranzo a Chester Square. L’invito era arrivato da una dama americana. C’erano anche Martin Amis e Mick Jagger. A un certo punto la conversazione si indirizzò su Woody Allen e Philip, che era seduto accanto a me, mi chiese che cosa ne pensavo. Risposi che non mi veniva in mente niente e che forse l’argomento non era poi così interessante.
La mia risposta innescò la sua curiosità».
Gli piacevano le belle donne.
«Non ne ha mai fatto mistero, ma aveva sposato Claire Bloom».
Com’era Roth in privato?
«Affettuoso e premuroso. Ma ricordo anche l’irritazione per Londra, che lo aveva stregato e col tempo deluso. Credo detestasse quel fair play sotto il quale si nasconde la peggiore spazzatura. Ricordo anche il disappunto con cui accolse la notizia che mia figlia Allegra avrebbe sposato Boris Johnson».
L’attuale premier inglese?
«Proprio lui. Philip detestava Boris, lo definiva “un ridicolo insettone albino” per giunta antisemita».
Condivideva quel giudizio?
«Boris, fin dagli anni di Oxford, dove aveva conosciuto mia figlia, sviluppò un atteggiamento di plateale arroganza. Verso tutti e tutto».
Un esibizionista?
«Ma capace di prendersi la scena. Philip voleva spezzare quel legame tra Boris e Allegra. E mi disse che, se glielo permettevo, avrebbe parlato con un suo amico, un senatore democratico che cercava un assistente per l’imminente campagna elettorale. Fui d’accordo. E quando tutto sembrava fatto, mia figlia mi chiamò e mi disse: sai mamma, ho deciso di rifiutare l’offerta americana. Perché? le chiesi. Dovrei stare troppo tempo lontano da Boris e questo significherebbe la fine del nostro rapporto. Una settimana dopo mi annunciò che si sarebbero sposati!».
Lo sono ancora?
«No, hanno divorziato».
Prima accennava all’amicizia con Mary McCarthy.
«Adoravo il fatto che fosse una donna severissima e insieme una grande cuoca. Come le due cose potessero andare assieme è un mistero. Aveva avuto un’infanzia difficile: orfana e accolta da odiosi parenti, crebbe con la determinazione che solo la letteratura avrebbe cancellato l’angoscia delle sue origini. E ce la fece. Siamo state molto amiche. Mi dispiacque che alla fine della sua vita si lasciasse coinvolgere in un litigio feroce con Lillian Hellman».
Provocato da cosa?
«Durante un programma televisivo, Mary disse che non le era piaciuto l’ultimo romanzo della Hellman, che si era inventata tutto. Le diede della bugiarda. La vicenda finì in tribunale e perse la causa. Oltretutto, Mary era anche malata di cancro e credo che la vicenda giudiziaria abbia influito sul suo stato di salute. Mi parlava spesso della sua grande amica Hannah Arendt che io vidi una sola volta».
So che lei ha frequentato Isaiah Berlin e Piero Sraffa.
«Due personalità molto diverse. Con Berlin condividevo la passione per la musica. Eravamo entrambi amici di Claudio Abbado. Isaiah desiderava che Claudio diventasse il direttore artistico del Covent Garden.
Aveva una parlata velocissima e capivo metà delle cose che diceva. Più rapido di lui era solo Brodskij. Berlin mi portò a una sua conferenza e non compresi quasi nulla.
Non era simpatico Brodskij. Non amava l’Inghilterra. Per lui c’era l’Italia, soprattutto Venezia, le donne e la poesia».
E Sraffa?
«Fu Nicholas Kaldor a presentarci. Confesso che non sapevo minimamente chi fosse Sraffa, né dei suoi rapporti con Wittgenstein e del credito di cui godeva tra tutti i grandi economisti di Cambridge. Quando entrammo in confidenza provai a leggere il libro per cui era diventato famoso».
Ossia “Produzione di merci a mezzo di merci”?
«Proprio quello. Non ci capii nulla e glielo dissi. “Non si preoccupi, Gaia, non c’è niente da capire”, mi rispose serafico. Ogni tanto andavo a trovarlo nella sua stanza all’università di Cambridge dove viveva. Qualche volta veniva a Londra da me. Incredibile le persone che aveva conosciuto: da Turati e Gramsci a Togliatti. Mi disse che a Cambridge era arrivato grazie all’aiuto di Keynes. Alla fine degli anni Settanta si ammalò di Alzheimer. Le mie visite si diradarono. Il college dove viveva gli aveva creato intorno una discreta protezione. Quando morì, nel 1983,la cerimonia funebre fu tenuta alla periferia di Cambridge».
Lei ci andò?
«Mi pareva il minimo che potessi fare. Fu cremato in un posto squallido e anonimo, senza musica e alla presenza di pochissimi amici. Avrebbe meritato di meglio».
Pensa mai alla morte?
«Cerco di non farlo. Ma poi mi tornano sotto gli occhi la fine di mio padre e quella di mia sorella, atroce, perché imprigionata nel proprio corpo. Non è bello immaginare come diventeremo. E poi gli esami di coscienza, i bilanci... uffa».
Non ne fa?
«Servono? Boh. So di essere stata molto antipatica e penso che oggi non sono la stessa persona di trenta o quarant’anni fa. Forse sono stata molto intollerante, esprimevo giudizi senza pensarci troppo. Libri, persone, eventi non risparmiavo nulla. Oggi sono più cauta, come se il tempo avesse smussato certi aspetti del carattere. A volte mi dico: Gaia, parli come una vecchia. E l’altra parte di me risponde: sei vecchia. Ecco, oscillo tra queste due sensazioni. La tecnologia ci sta rendendo presuntuosamente ubiqui. Pensiamo di essere ovunque, in realtà siamo soltanto soli, confitti in un punto trascurabile dell’universo».
Tornerebbe a vivere in Italia?
«No, anche se l’Inghilterra mi pare abbia preso una china imprevedibile e pericolosa. Sull’Italia potrei dire le solite banalità: la bellezza, il sole, una certa originalità. Ma la verità è che a causa del suo cattolicesimo non ha mai pagato per i suoi peccati. E questo la rende decisamente diversa dal resto dell’Europa».