Robinson, 8 settembre 2019
I garbugli dell’Ing. Gadda
Alberto Arbasino, trentenne (dunque nel 1960) si inventò la definizione “nipotini dell’ingegnere” cucita sulle proprie spalle e su quelle di Testori e Pasolini per esaltare la centralità di Gadda che con il Pasticciaccio (1957) si poteva finalmente dire un autore riconosciuto e con un pubblico in crescita. E ancora Arbasino nell’Ingegnere in blu (2008) parlava dello “choc della scoperta” per tutta una generazione. La vita di Gadda non era stata facile. Trasferitosi da Milano a Firenze nei travagli della Seconda guerra mondiale viveva in estrema penuria. La sua salvezza fu la Rai dove approdò nel 1950, grazie a Giovan Battista Angioletti e dove rimase cinque anni dettando anche in un poi celebre opuscolo le regole che si dovevano osservare per scrivere per la radio. Oggi esce un cospicuo volume (553 pagine) di saggi dispersi sotto il titolo Divagazioni e garbuglio che vanno letti anche tenendo presente lo scorrere della sua vita, compresi i malumori, il senso di persecuzione che talvolta lo attanagliava, quando per procurarsi il pane (come amava dire) doveva venire a patti con lo spazio concesso dai giornali. Una volta si lamentò con Falqui per un elzeviro tagliato e diede del bischero a Buzzati che sul Corriere occupava ben tre colonne mescolando «Kafka e Landolfi irrancidito».
Il volume, molto ben curato in ogni dettaglio da Liliana Orlando, si apre con uno scritto del ’27 uscito su Solaria e intitolato “Apologia manzoniana”. Gadda ha trent’anni. Il Manzoni gli appare come titolare di una atroce indagine sulla condizione umana. Non è un rivoluzionario, ma, insinua l’Ingegnere, «parla di corda in casa dell’impiccato». Ad un certo punto i bravi manzoniani ci appaiono colorati, col cappello e lo spadino. Gadda, infatti, per raccontarli, ricorre a Caravaggio, alla Vocazione di Matteo. Profondo conoscitore del romanzo ( che lesse e rilesse fino agli ultimi anni) non perdonò a Moravia l’introduzione al Manzoni compilata per i Millenni Einaudi nel 1960 e si oppose, come recita il titolo della sua recensione, al bisturi dello scrittore romano che censurava come propagandistico l’aspetto religioso. Da “gran lombardo” Gadda tornava volentieri su Manzoni, magari anche per sfottere il famoso “Ei fu” dove Lui fa rima con Nui, o per spettegolare sulla famiglia e sul vero padre di Alessandro. Quando lavorava alla Rai dedicò una trasmissione di circaquaranta minuti alla presentazione dell’edizione critica di Carlo Porta curata da Dante Isella per la Nuova Italia e il testo, recuperato a suo tempo da Giulio Ungarelli, si può rileggere qui. Molti anni dopo Isella porterà a compimento l’edizione Garzanti delle opere di Gadda ed è tra i numi tutelari dell’edizione Adelphi. Come dire che tutto si tiene, in perfetta consonanza culturale.
Gadda si appartiene e si ascolta. Eccolo, per esempio, discutere di lingua e dialetto. «Il dialetto, nelle sue manifestazioni più vive, lo rivivo quanto il toscano, lo spagnolo, il francese. E magari il latino. La battuta mi si offre, le pulsazioni salgono a 120. Lo squallore d’una lingua “doverosa”, acquisita per obbligo attraverso le buone regole mi raggela e mi smonta». Gran cultore del Belli, studia a fondo il romanesco, ma è pronto a ricordare il dialetto lombardo del Fogazzaro in Piccolo mondo antico.
Nella “Battaglia dei topi e delle rane”, uscito sull’Illustrazione italiana nel ’ 59, Gadda è caustico a proposito dei cultori della monolingua e infilza la poesia retorica ( Carducci e tanti altri) che non si rende conto dell’effetto comico di certe immagini altisonanti. Era invece attratto, e ne scrisse, dalla poesia di Montale.
Non si poteva intitolare meglio questa raccolta di saggi sparsi specie per quel “garbuglio” che rimanda al “gliommero” inestricabile che affligge Ingravallo nel Pasticciaccio mentre tenta di sciogliere l’enigma del delitto di via Merulana. Quanto alla monolingua non oso pensare all’Ingegnere alle prese con tanta prosa d’oggi. Lui che nel risvolto del Pasticciaccio aveva scritto di sé: «vive nella capitale della Repubblica a quattordici chilometri dal centro». Non ti muovi mai? Gli chiedono le persone indaffarate. «No! Non mi muovo».