L’Economia, 9 settembre 2019
Più lavoro (senza trucchi) per i giovani
Dal governo più giovane di sempre ci si attende molto. Tutto, a leggere il programma della seconda innaturale alleanza di questa legislatura. Giudicheranno i fatti, i numeri che, d’ora in poi, non dovrebbero essere più – come affermava baldanzoso l’ex vicepremier Luigi Di Maio – «numerini». Ma ci si attende che un esecutivo verde – anche anagraficamente – abbia un’attenzione particolare ai giovani, al lavoro dei giovani. Perché in un Paese che invecchia (sono più i bisnonni dei pronipoti) i giovani sono pochi, contano poco e, se possono, se ne vanno.
Secondo i dati Istat, al primo gennaio di quest’anno la fascia di età compresa tra i 15 e 34 anni contava 12,5 milioni di persone, il 20,7 per cento del totale della popolazione italiana. Nel 2009 erano 13,6 milioni, il 22,9%. In un decennio abbiamo perso più di un milione di giovani! Di conseguenza – sempre sfogliando il rapporto annuale Istat – i giovani pesano meno sull’insieme degli occupati. Anche per altre ragioni, come l’allungamento del periodo di studi o l’aumento dell’età di pensionamento. La distanza fra giovani e meno giovani – chiamiamoli così – si è allargata anche guardando alla stabilità dei rapporti di lavoro. Tra i giovani la quota dei dipendenti a tempo indeterminato è scesa dal 61,4% del 2008 al 52,7 del 2018, mentre per i lavoratori con più di 35 anni è cresciuta di più di un punto percentuale. La percentuale dei laureati sulla popolazione con più di 15 anni è aumentata dal 10,7 al 14,7% dal 2008 al 2018. La quota di laureati tra gli occupati di età compresa tra i 20 e i 34 anni è cresciuta nel decennio dal 16,3 al 22%. Nello stesso periodo, a livello generale, abbiamo avuto un milione e 431 mila laureati in più.
Bene, ma che cosa è accaduto nel frattempo? L’intera struttura occupazionale si è impoverita in termini di qualità e, dunque, è esploso il fenomeno della sovraistruzione in larga parte giovanile in un Paese complessivamente sottoistruito. Uno dei tanti paradossi. Quanti sono le persone, nel complesso, che svolgono delle mansioni per le quali è richiesto un livello di istruzione inferiore? Sempre secondo il rapporto annuale Istat, sono 1,8 milioni tra i 20 e i 64 anni. In aumento nel quinquennio 2013-2018 – anche per l’ingresso nel mondo del lavoro di persone più preparate – dal 32,2 al 34,1%. Ovvero un laureato su tre è sottoccupato. Soprattutto giovani donne. E anche qui c’è una differenza di genere che vede l’occupazione femminile discriminata. Un bacino di insoddisfatti. Invisibile.
I datiNel febbraio scorso è stato pubblicato il rapporto «Il mercato del lavoro 2018, verso una lettura integrata», a cura di Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal. Uno studio che consente di misurare meglio le modalità d’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani tra i 15 (età che ambiremmo a veder scomparire dalle statistiche) e i 29 anni. Nel triennio 2015-2017 i primi ingressi sono cresciuti del 34,4%. Nel solo 2017 la metà circa con contratto a tempo determinato, per il 14% attraverso l’apprendistato, per l’11% «intermittenti». In maggioranza uomini e al di sotto dei 20 anni. La decontribuzione piena è finita nel 2015. Ciò ha dimezzato i contratti a tempo indeterminato. L’eliminazione dei voucher ha triplicato il lavoro intermittente.
In quali settori i giovani hanno fatto la loro prima esperienza di lavoro? Ristorazione, ovvero camerieri, commessi, autisti, braccianti agricoli, lavori d’ufficio, in particolare. E questo ci riporta al tema della sotto occupazione. A un anno di distanza il rapporto è ancora attivo in un caso su due, più al Nord che al Sud. Più la qualifica è alta maggiori sono le probabilità che il lavoro continui: il 38,8% dopo sei mesi, al 49,5 dopo ventiquattro mesi. Anche qui gli uomini riescono ad avere un lavoro stabile prima delle donne.
Nel complesso possiamo dire che l’occupazione giovanile, in particolare indipendente, ha dato segnali di risveglio. Con qualche significativa crescita nell’industria in senso stretto, nei servizi alle imprese. Molti sono gli impieghi professionali però che rimangono scoperti, per mancanza di offerta. Il Jobs act ha avuto i suoi effetti positivi. In particolare, la decontribuzione nelle sue varie fasi (oggi ancora per i contratti a tempo indeterminato per gli under 35). Rimane il dubbio se il costo (17 miliardi in totale finora) non sia stato eccessivo. Ed è per ora di difficile valutazione quale sia stata la conseguenza, nel momento in cui i cosiddetti navigator prendono servizio, dell’introduzione del reddito di cittadinanza. Favorirà, e in che modo, l’occupazione giovanile o funzionerà da freno alla ricerca di un posto? Il 70% dei percettori non è, come si dice, «occupabile». «Al netto delle dinamiche demografiche – è il commento di Roberto Monducci, direttore del Dipartimento di produzione statistica dell’Istat – la crisi economica ha colpito più violentemente i giovani, aumentando i divari intergenerazionali sia per la difficoltà di accedere al primo lavoro sia perché impiegati a breve termine. Considerando la classe tra i 25 e i 34 anni, il tasso di occupazione è tornato a crescere dal 2015 con un anno di ritardo rispetto al totale tra i 15 e i 64 anni. Ma il tasso di occupazione, sempre nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, pari in media al 61,6%, presenta una notevole variabilità. Si va dall’83,7% dei maschi al Nord al 33% delle donne al Sud. Dal punto di vista dinamico, un aspetto di un certo interesse è il fatto che, nell’ultimo anno, i giovani abbiano registrato una maggiore persistenza nella condizione di occupati rispetto a quanto avvenuto l’anno precedente. In particolare, appare maggiore la persistenza nella condizione di occupato dipendente a tempo indeterminato, con un contestuale incremento dei passaggi tra lavoro a termine e lavoro permanente».
In una intervista a Repubblica, il presidente dell’Assolombarda, Carlo Bonomi, ha proposto un coraggioso piano per aumentare il salario d’ingresso dei giovani, detassando per esempio il tutoring, il trasferimento di competenze tra lavoratori anziani e nuovi arrivati. Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, si è chiesto, sul Sole 24 Ore, se non sia l’ora di varare politiche attive più incisive, ovvero di serio accompagnamento e formazione. Il sentimento prevalente dei giovani oscilla tra la frustrazione di ricerche affannose e l’amara scoperta di non avere profili adeguati alle necessità del mercato. Ma il tempo per recuperare c’è. L’importante è che nessuno si perda d’animo, si deprima.
La sfida è soprattutto questa. Un impegno morale più che un programma economico. Un passo significativo si potrebbe già fare spezzando il cattivo uso dei tirocini (370 mila nel 2017) soprattutto quelli extracurricolari (500 euro al mese, niente effetti pensionistici) e favorendo l’apprendistato. Sono spesso, i tirocini, il modo attraverso il quale le aziende risparmiano sul costo del lavoro. I contratti di apprendistato, sempre nel 2017, erano in Italia 428 mila. In Germania 1,4 milioni. C’è spazio, coraggio.