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 2019  settembre 09 Lunedì calendario

Alzheimer, più malati e meno cure

In Italia le persone affette da demenza sono un milione. Fra loro 600 mila soffrono di Alzheimer. Nel tempo questa malattia neurodegenerativa, che distrugge progressivamente le cellule del cervello, porta alla perdita di memoria. E così una madre non riconosce il figlio, un marito la moglie. Un’emergenza sociale e sanitaria destinata ad aggravarsi ulteriormente con l’invecchiamento della popolazione.
«Con il trascorrere del tempo, le persone che si ammalano smarriscono l’orientamento nello spazio e la capacità di collocare nel giusto ordine gli eventi della propria vita. Manifestano difficoltà nel linguaggio e non riconoscono più i volti dei familiari, assumendo talvolta comportamenti aggressivi» spiega Paolo Maria Rossini, neurologo del Policlinico Gemelli di Roma.
Oggi le demenze colpiscono l’8% degli anziani ultrasessantacinquenni e fino al 20% degli ultra 80enni. Il calvario del paziente può trascinarsi per oltre dieci anni con conseguenze psicologiche e costi devastanti per i familiari e gli amici che lo assistono. Nel 2014 il governo ha approvato il piano nazionale demenze, che fornisce indicazioni strategiche per il miglioramento degli interventi nel settore, non soltanto con riferimento agli aspetti terapeutici, ma anche al sostegno del malato e dei familiari lungo tutto il percorso di cura. «Peccato che, non essendo finanziato, sia rimasto lettera morta. Per quanto la situazione nelle diverse Regioni sia a macchia di leopardo, il carico dell’assistenza del malato ricade ancora, e in buona parte, sulle famiglie» ricorda Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia. Dove non arrivano i servizi sociali subentra per fortuna l’associazionismo, con iniziative virtuose come quella delle “comunità amiche”, un modello di integrazione e formazione rivolta all’intera cittadinanza. La prima esperienza italiana risale al 2016 ad Abbiategrasso, in provincia di Milano. «Per la prima volta – ricorda Salvini Porro – associazioni di famigliari, comune e distretto socio-sanitario si sono seduti a un tavolo e hanno elaborato un piano di misure pratiche, anche comportamentali, per adattarsi alle esigenze dei malati». Tra queste, la richiesta di non venire evitati o ignorati. «Durante il lungo decorso la persona può alternare momenti di assenza con quelli di lucidità» prosegue Salvini Porro, sottolineando il forte stigma che ancora oggi circonda le persone affette di demenza: troppo spesso le famiglie si vergognano della loro condizione e finiscono per isolarsi. Nonostante i progressi della ricerca, non esiste ancora una cura per l’Alzheimer, la cui progressione può essere solamente frenata. «La malattia lavora nel buio per anni prima dei primi sintomi. Tuttavia, il cervello possiede una discreta riserva neurale che tampona le perdite: l’Alzheimer si manifesta una volta esaurito questo salvadanaio» prosegue Rossini. Ecco perché la strategia attuale passa per la diagnosi precoce: prima si intercetta il malato, maggiori sono le probabilità di contrastare la progressione attraverso la stimolazione cognitiva. Per accelerare l’identificazione della malattia, spesso confusa con l’inevitabile declino cognitivo dell’anziano, ministero della Salute e Agenzia del farmaco stanno conducendo Interceptor, un ambizioso progetto che punta a individuare i marcatori biologici più appropriati della patologia.
Entro il 2022, un rigoroso insieme di parametri fisiologici potrebbe affiancare i tradizionali test neuropsicologici compilati con carta e penna. Tuttavia, la prima linea di difesa dalla malattia rimane la prevenzione attraverso l’adozione di abitudini che possano proteggere il cervello. Uno stile di vita sano e attivo può infatti rallentare significativamente la degenerazione. «Soprattutto per chi ha casi in famiglia, è fondamentale curare l’alimentazione e tenere sotto controllo pressione, tiroide, glicemia e colesterolo. Un regolare esercizio cognitivo, combinato a quello fisico, può contribuire a contrastare la progressione, mentre alcol, sostanze stupefacenti, sedentarietà e fumo sono deleteri» suggerisce Rossini. Perché la genetica non si può (ancora) correggere. Ma le cattive abitudini sì.