il Giornale, 9 settembre 2019
Biografia di Giuseppe Meazza
Tucc i matin la gent l’andava in gesa.
A faa cus’è ?
A pregaa. Per el pe’ del Pepin.
È un milanese gergale, ma rende, e spiega subito tutto.
È il 9 febbraio del 1930, albori del calcio, la Nazionale gioca a Roma, non siamo gli ultimi arrivati ma in Europa l’Ungheria, l’Austria e la Cecoslovacchia ci sono superiori, gli inglesi i maestri, e le radiocronache sono già l’invenzione del secolo. Alla guida delle maglie azzurre in omaggio alla casa reale, c’è un dirigente della Pirelli, Vittorio Pozzo, e quel giorno bisogna affrontare la Svizzera. Per chi immagina quel calcio un passatempo praticato da modesti perditempo, visionario, improvvisato e lontano, chiuda gli occhi, è subito popolare e quindi di sangue, nato fra le pietre delle strade, va sottopelle, raduna folle oceaniche e ha già scritto le tavole di questo che stiamo vivendo. E quel giorno lo testimonia.
Nell’attacco della nostra Nazionale ci sono due fuoriclasse, i napoletani Attila Sallustro e Marcello Mihalic, sono due calciatori che si completano, formidabili, contro il Portogallo hanno fatto miracoli ma proprio alla vigilia della sfida contro la Svizzera Mihalic si infortuna e non può giocare. Pozzo decide che l’uno senza l’altro non funziona e tutti si aspettano che al centro dell’attacco schiererà il fiumano Rodolfo Volk, idolo dei tifosi della Roma. Invece fa il suo esordio Giuseppe Meazza, lo chiamano Balilla, è solo un ragazzino, sembra il sosia di Rodolfo Valentino, magrolino, tanta brillantina, niente di più. La gente sugli spalti è inferocita, sono arrivati fin da Napoli per fischiarlo, i romanisti peggio, i primi non hanno gradito l’allontanamento di Sallustro, e il gran rifiuto a schierare Volk pare una provocazione bella e buona. Ma gioca il Balilla e la Svizzera va sul 2-0. Sugli spalti è un inferno, ogni tocco di Meazza è una scossa, i tifosi sulla punta dei piedi mostrano i pugni. Si gioca, segnano prima Magnozzi poi Orsi e sul 2-2 inizia lo show del Pepin, due gol, anzi due punti come si diceva allora, la Svizzera si sbriciola ma non si placano gli insulti al ragazzino. Sulle gradinate c’è sua mamma, piange, nessuno l’ha riconosciuta, ha tenuto dentro tutto ma quando il figlio segna il primo e poi il secondo, allora non resiste, la giornata minacciava pioggia, ha con se l’ombrello e via, inizia a distribuirlo sulle teste dei vicini, poi continua, tutta la fila e poi ancora, un pandemonio. Quel giorno insieme alle ombrellate di mamma Ersilia inizia la leggenda della nazionale italiana di calcio con le quattro stelle cucite sulla maglia e le prime due a Roma e Parigi hanno il timbro indelebile del calciatore che per molti è stato ed è tutt’ora il più grande, Giuseppe Meazza.
Poca voglia di andare a scuola, un po’ brigante, il primo a scappare, lesto, voleva una squadra di calcio e allora la fonda, la chiama Costanza, aveva tredici anni, faceva tutto lui, allenatore, giocatore, capitano e presidente, dopo la partita andavano a bere qualcosa tutti insieme e un giorno uno dei ragazzi gli fa: «Fai sempre tutto tu, e allora io cosa faccio?». E lui: «Tu paghi la spuma».
È diventato più di un mito, non era solo il calcio, era la vita, se si impomatava con quella brillantina, tutti la compravano, se lo vedevano girare in bicicletta, tutti a comprare quella marca, se prendeva il tram, tutti in tram. Due pacchetti di sigarette al giorno, tre quando doveva giocare, sale da gioco, case chiuse, non si faceva mancare niente, elegante, una gardenia sul gessato, cappotto di cammello, carriolate di donne, doveva uscire dai retrobottega, la gente lo amava, le signore di più. Primo calciatore testimonial di qualunque cosa, detersivi, dentifrici, pneumatici, caramelle, ha anticipato cinquant’anni di calcio, come i difensori avversari che si diceva si nascondessero quando prendeva la palla e si inventavano qualcosa per non andargli sotto e evitare brutte figure. Con i portieri aveva studiato un trattamento speciale, le sue reti le chiamavano gol a invito. Dopo aver fatto fuori la difesa si presentava davanti a loro semiterrorizzati, con la palla fra i piedi quasi si fermava e li invitava a uscire, e loro, appena accennavano il primo passo verso di lui, venivano aggirati con tocco irrisorio, poi quando la porta era finalmente spalancata procedeva, libero e trionfante verso la rete. Un giorno uno di questi poveri malcapitati, dopo aver preso tre gol tutti nel medesimo modo, decise di non uscire ma di aspettarlo sulla riga di porta. Non servì a niente, Meazza fece il quarto. Ma mentre rientrava trotterellando verso la sua metà campo dopo il gol, il portiere lo raggiunse e dopo avergli fatto il gesto dell’ombrello gli disse: «Sì, però non me l’hai fatta, mica sono uscito!». Era il massimo che si potesse ottenere quando si affrontava Meazza.
L’unico modo per fermarlo era menarlo, ne ha prese tante, una volta, una sola volta, ha reagito, è andato verso il carnefice e gli ha piazzato un destro sul naso, poi è uscito dal campo senza neppure aspettare la decisione dell’arbitro. I figli raccontano che quell’episodio non lo ha mai dimenticato, se ne vergognava. La gente diceva che forse c’era qualcuno più forte di lui, ma lui era il più forte di tutti. Chi non andava al campo poteva solo immaginare, ha fatto cose che non si può credere, tre mesi dopo quell’esordio contro la Svizzera va a Budapest e segna tre reti agli ungheresi sul campo del Ferencvaros, finisce 5-0, una partita che ancora oggi resta scolpita nella storia della nostra nazionale, cosa non pagheremmo per poterla vedere. Si racconta che la finale mondiale del ’34 contro la Cecoslovacchia sia stata il suo capolavoro. Insieme agli austriaci erano depositari di un modello ritenuto inarrivabile, era il calcio danubiano fatto da una fittissima rete di passaggi brevi e in linea, la squadra avanzava in blocco e metteva paura, poi all’improvviso la palla arrivava al centravanti che giocava dietro alle due mezze ali e finiva quasi sempre in rete. I cronisti dicevano che era la metafora sul campo dell’ex impero asburgico e Meazza ne decretò la fine eterna. Con le 20mila lire di premio si comprò il primo appartamento a Milano, poi stese i supponenti brasiliani al mondiale del ’38, talmente certi che sarebbero andati in finale da prenotare l’unico aereo disponibile per raggiungere Parigi da Marsiglia dove si sarebbe giocata la semifinale in cui lasciarono fuori il centravanti Leonidas Da Silva per farlo riposare. Meazza a quel Brasile fece un gol reggendosi i pantaloncini con la mano perché si era rotto l’elastico, e poco importa se era su calcio di rigore. In finale frantumata l’Ungheria a Parigi in uno stadio ostile che a fine partita tutto in piedi, eccitato dalle sue giocate, urlava solo il suo nome. Si esaltava davanti alle avversità, protagonista principale dei Leoni di Highbury quando in dieci e sotto di tre gol, segnò una doppietta agli inglesi e colse una traversa nei minuti finali. Nel momento di massimo pericolo tirava fuori il meglio, la sintesi perfetta del nostro carattere, dai, e non solo nel calcio.
Ma l’animo era buono, generoso, rispettoso, umile come le sue origini, aveva perso il padre in guerra e piuttosto che parlar male di un compagno diceva: «È bravo... ma lento». Fenomeno, primo divo del calcio mondiale, 14 anni nell’Inter, lo volevano tutti, una stagione nel Milan, un’altra alla Juventus nonostante fosse ormai l’ombra di quanto era stato, anche Atalanta e Varese, ha chiuso nelle giovanili dell’Inter quando i ragazzi arrivavano al campo in pantaloncini corti, come lui quando si presentò la prima volta. Poi una vita riservata, anzi riservatissima, da Porta Vittoria al Castello, qualche passeggiata, aveva i soldi, amava i figli, la moglie e il lusso, e si meritava tutto questo.
Chissà dove finisce la realtà e inizia la leggenda, il mito, questa favola, quando il racconto si trasforma in fantasia. Meazza l’ha scritta fino in fondo, perfino la sua dipartita è avvolta nel mistero, per sua volontà si seppe solo il giorno del funerale, finì a Lissone, per qualcuno a Rapallo. Di sicuro un embolo alla gamba sinistra gli complicava la circolazione e gli gelava il piede, andò perfino da un mago per guarire, niente, tentò di tornare a giocare ma non era più lui. E allora la gente tutte le mattine prima di andare a bottega andava in chiesa a pregare il Signore per far scongelare il piede del Pepin.