Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  settembre 09 Lunedì calendario

Lunga intervista a Letizia Moratti

Algida ma elegante, determinata ma pacata. Indro Montanelli disse che usava un «pugno di ferro soave». In effetti Letizia Moratti non ha mai avuto bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. Chi la conosce bene l’ha vista più volte commuoversi, anche nei momenti istituzionali.
Giro di perle e piega impeccabili già alle 8 del mattino, è stata presidente Rai, ministro dell’Istruzione, sindaco di Milano, ha fondato la Fondazione San Patrignano e presiede il consiglio di gestione di Ubi Banca. Avrebbe potuto fare la metà di ciò che ha fatto, anche nulla, viste le origini nobili. Ma il senso del dovere ce l’ha addosso, innato, ancora oggi che è alla soglia dei 70 anni.
Questo stesso senso del dovere, un po’ imprenditoriale e un po’ sociale, è riuscita a trasmetterlo ai suoi figli?
«Spero, assieme a mio marito, di esserci riuscita. Gilda è molto attenta alle tematiche ambientali. Fa anche missioni complicate, pericolose. È stata in Sudafrica per il salvataggio dei rinoceronti, in Kenya per salvare gli elefanti, in Messico per un documentario sui vaquita, piccoli delfini che stanno scomparendo, con cui ha vinto il festival di Sanders. Da mamma sono in tensione quando va ma anche molto orgogliosa. Gabriele invece, che ha un suo marchio di moda, destina parte del fatturato a iniziative sociali ed è molto attento ai materiali che usa». 
Direi che l’attenzione all’altro è genetica. Anche il suo ultimo progetto, E4Impact in Africa, racconta di questa vocazione. 
«Siamo partiti da un progetto che era già in atto grazie all’Università Cattolica. Io l’ho trasformato in una Fondazione a cui partecipano il gruppo Salini, Mapei, Diana Bracco, Intesa SanPaolo, Eni e altri. Ora lavoriamo in tredici paesi africani, dal Sudan allo Zimbabwe. Formiamo qualche centinaio di imprenditori all’anno che restano lì e creano lavoro». 
È questo il senso dell’«aiutiamoli a casa loro»? 
«Sì, un supporto per creare le condizioni perché la vita sia dignitosa, per metterli in grado di aiutare le comunità in cui vivono. C’è un ragazzo che nella periferia di Nairobi, invasa dalla plastica, ha creato un’impresa che trasforma la plastica in materiale da costruzione. Dà lavoro a 250 persone. Noi formiamo imprenditori di impatto, che diano un ritorno al loro Paese. Finora questi imprenditori hanno creato un indotto con 3mila posti di lavoro».
Intende questo quando parla di economia sostenibile?
«Sì, deve essere il nostro modello, non possiamo proprio più rimandare. Quando vediamo che l’Indonesia è costretta a spostare la capitale perché Jakarta affonda da 5 ai 10 cm all’anno sotto il livello del mare, cosa stiamo ancora a dire, che non c’è il problema del cambiamento climatico?». 
Altro enorme impegno sociale: San Patrignano. La sua Sanpa.
«Io e mio marito abbiamo iniziato 40 anni fa e mi rendo conto che è una realtà unica al mondo. Ospita 1.300 ragazzi, ogni anno ne escono circa 300. Il 90% trova lavoro». 
Li sente come dei figli, vero?
«Sinceramente un po’ sì. Figli miei e di Gian Marco. Stiamo portando avanti uno degli ultimi progetti che lui stava seguendo, la Fabbricheta. In realtà ora si chiamerà «Squisito» e lo inaugureremo a gennaio. Sarà una struttura coperta con forno, caseificio e norcineria. Sarà un grande laboratorio dove i ragazzi impareranno un mestiere su macchinari migliori rispetto a prima e maestri che li seguiranno. Miglioreremo anche la produzione: Sanpa è un’impresa sociale e per circa il 50% si sostiene con i prodotti che vende».
Tuttavia la battaglia contro le droghe sembra sempre destinata alla sconfitta. Comprese realtà come il boschetto di Rogoredo a Milano. Da quando lei era sindaco si fanno interventi per smantellarlo ma è ancora lì.
«In generale non vedo una vera volontà di affrontare il tema della droga o di arginarlo. Un punto importante, al di là di aiutare i giovani caduti nella dipendenza a uscirne in maniera definitiva, è lavorare sulla prevenzione e la consapevolezza. Con San Patrignano facciamo molta prevenzione, toccando 50mila studenti all’anno». 
Che ricordo ha di Vincenzo Muccioli?
«Difficile raccontarne uno solo. La vita con Vincenzo è stata così intensa che non saprei. Era di una generosità estrema. Capiva di cosa aveva bisogno ogni singolo ragazzo. A uno, appassionato di cavalli, aveva preso un cavallo. Aveva regalato un barboncino a una ragazza in crisi, quando vedeva che c’era un po’ di tensione metteva tutti a cucinare, assieme. La cura più bella era la tavolata, tutti i ragazzi uniti». 
Ogni angolo di San Patrignano parla anche di suo marito Gian Marco. 
«Sì, e lì sentono molto la sua presenza, seguono i suoi insegnamenti. Quelli di cui è stato testimone con le sue azioni più di quelli che ha raccontato: il dedicarsi agli altri, l’impegnarsi».
Lei parla di suo marito come fosse ancora qui. 
«Lo è. È molto presente, come è sempre stato. In forma diversa ma c’è. Non riesco a non sentirlo qui vicino a me. Pensi che quest’anno sarebbero stati 50 anni da quando ci siamo conosciuti». 
Lei aveva 19 anni, immagino non sia stato semplice innamorarsi di un uomo che già aveva due figli. 
«È stato facile e naturale perché il nostro era un legame da subito fortissimo». 
È vero che è anche scappata di casa?
«Ah sì, ero giovanissima, ma fu una marachella: fu perché non mi facevano vedere Lascia o Raddoppia. In generale ho sempre cercato di trovare la mia strada e portarla avanti. Tipo andare all’università: in quegli anni non era una scelta scontata e i miei genitori non erano molto d’accordo, così come non erano d’accordo sul fatto che lavorassi subito dopo. Mia madre non capiva che bisogno ci fosse». 
Che bisogno c’era? In fondo lei avrebbe potuto condurre una vita diametralmente diversa.
«Non l’ho mai potuta concepire una vita senza il lavoro, senza l’impegno. Ce l’ho dentro». 
Chi la incoraggiò ad andare contro corrente? 
«Mio suocero Angelo Moratti. Per me è stata una persona molto importante. Anche quando ho lasciato l’azienda di mio padre e fondato la mia, è stato lui a dirmi di andare avanti. Io ero stata a Londra, avevo visto come si lavorava in un altro ambiente, cercai di convincere mio padre a cambiare modo di lavorare ma giustamente lui aveva il suo modo e io trovai il mio». 
Famiglia potente, ruoli potenti. Ma il potere a lei interessa?
«No. Per niente. Mi interessa l’obbiettivo».
Che non è la poltrona. Lei è stata ministro all’Istruzione presidente Rai, sindaco a Milano. Ha rifiutato ruoli altrettanto importanti?
«Sì. Ad esempio per un governo precedente ho rifiutato l’offerta di un ministero. Era tra l’altro un periodo in cui ero molto impegnata per l’azienda. Ho sempre cercato di accettare solo incarichi in cui pensavo realmente di dare un contributo e cambiare qualcosa». 
Logica manageriale?
«Non la chiamerei solo così. Valutavo se mi era possibile portare un cambiamento o no. La Rai, ad esempio, aveva bisogno di un grande tournaround, ma ho anche introdotto il segretariato sociale che è ancora rimasto e dà voce alle Ong e alle imprese del terzo settore. A livello di ministero, volevo combattere il tasso di abbandono scolastico con percorsi alternativi. Ho fatto rientrare nel mondo della formazione 180mila ragazzi».
D’accordo che era abituata, avendo frequentato Scienze Politiche negli anni caldi, ma che effetto le facevano le manifestazioni studentesche quando era ministro?
«Le davo assolutamente per scontate. La durata dei ministri dell’Istruzione è bassissima. Io in 5 anni ho visto cambiate tutti i ministri miei colleghi in Europa, tranne quello tedesco. Io ho retto».
Cosa l’aveva spinta a lasciare l’allora Pdl? 
«Nel Pdl avevo pensato di portare la mia esperienza e le mie competenze nel sociale ma non mi sembrava ci fosse un grande interesse. Questa forse è stata la molla che mi ha spinto a lasciare. Anche perché ho capito che si può incidere in altro modo. Poi ho avuto modo di approfondire temi come quello della sostenibilità che, quando avevo iniziato, non erano così diffusi». 
Lei è la lady di ferro che tutti dicono?
«Ecco, mi hanno appiccicato quell’etichetta nella quale proprio non mi ritrovo». 
Sarà il tailleur? Sarà la sua riservatezza?
«Ovvio che ci siano dei momenti in cui uno debba avere una carta fermezza. Ad esempio se si fa una trattativa sindacale o si acquisisce un’azienda ci vuole risolutezza. Poi ci vuole anche la capacità di dialogare e capire i punti di vista degli altri. Io ho sempre chiuso tutti i contratti sindacali».
Una donna che sente affine a lei?
«Ognuno è un mondo. Non saprei, non ci ho mai pensato».
Sempre riservata ma lei è anche la donna del bellissimo bacio con suo marito al momento dell’assegnazione di Expo a Milano.
«È vero, questo è un bellissimo ricordo. Anche per Expo mio marito mi ha aiutato moltissimo. In quel momento c’era molta diffidenza sul progetto, c’era poca convinzione. Anche in quello, come in tutto, lui è stato determinante».
Cosa avrebbe fatto di diverso se fosse rimasta sindaco, soprattutto per il post Expo?
«Tornassi indietro metterei già nel dossier di candidatura la destinazione post Expo. È vero che avevo inserito il vincolo a verde sul 50% delle aree, ma avrei prestato qualche attenzione in più alla seconda vita dei padiglioni che, una volta smontati, avrebbero dovuto avere nuove destinazioni sociali o ambientali. Per il post Expo pensavo a un centro per lo sviluppo sostenibile, quello che sembra in fase di attuazione è simile, ma averlo definito prima avrebbe accorciato i tempi». 
Nella sua campagna elettorale per il bis a Milano perse contro Pisapia. Sottovalutando il potere dei social, su cui le era stata tesa la trappola di una domanda-bufala sulle moschee. 
«È vero. Ho sempre cercato di lavorare sulle cose che dovevo fare come sindaco, fino all’ultimo giorno. La campagna per me era una cosa in più e sicuramente l’ho sottovalutata, social network compresi».
Ora com’è il suo rapporto con i social? Li usa?
«No, non ne ho bisogno in questo momento. Non sono diffidente ma non mi piace la politica affidata ai social perché è molto superficiale. Esiste solo il like, non c’è altro, non c’è una classificazione di merito, non c’è un approfondimento. Capisco che ora siamo questo». 
Ci siamo allontanati da quello che servirebbe davvero al Paese?
«Serve un ritorno alla concretezza, a programmi credibili con una visione che vada oltre il day by day. La sostenibilità è sottovalutata in politica. Vedo più attenzione dal mondo finanziario: 181 imprese hanno firmato un manifesto per la sostenibilità, 32 imprese del fashion ne hanno firmato un altro, Larry Fink di BlackRock ha inviato una lettera ai suoi per una strategia di investimenti in aziende sostenibili. Invece la politica ne parla poco e a volte in maniera non corretta, questo mi preoccupa. Servirebbero incentivi come per Industria 4.0 che è stato un ottimo provvedimento per gli investimenti in nuove tecnologie. Bisognerebbe replicarlo nella versione Sostenibilità 4.0 ma non lo vedo». 
Cosa fa nel tempo libero?
«Ne ho poco. Molto lo passo a San Patrignano, come ho fatto da sempre con mio marito. E poi mi divido tra figli, nipoti e il mio cane Black, un trovatello che vive con me. Amo l’arte. A me e Gian Marco è sempre piaciuta, in ogni forma. Musica compresa, anche se sono stonata. Quello che aveva orecchio era lui, che leggeva gli spartiti e ascoltava jazz e sinfonica».