il Giornale, 9 settembre 2019
Beneficienza e potere: nomi e numeri
Fondazioni bancarie, ovvero il potere della beneficenza. Nell’immaginario collettivo sono uno dei pilastri della ricerca del bene comune. Moderne Robin Hood impegnate a combattere la crisi del welfare usando il patrimonio delle banche per creare arte, bellezza o sviluppo e regalare risorse e possibilità ai territori. Per i detrattori sono un bancomat che va spesso a beneficiare interlocutori privilegiati, uno strumento che nei casi meno virtuosi favorisce la creazione di sistemi di potere difficili da scalfire, coriacei, decisi a resistere nel tempo.
A quasi 30 anni dalla loro creazione, con la Legge Amato del 1990, le fondazioni di origine bancaria si interrogano con la presidenza di Francesco Profumo, ex presidente del Cnr ed ex ministro del governo Monti oggi alla guida di Compagnia San Paolo, sul loro futuro. I numeri descrivono una realtà segnata da luci e ombre. Gestiscono attività per un valore vicino ai 45 miliardi. Nella classifica la più ricca è sempre Fondazione Cariplo seguita da Compagnia San Paolo e Fondazione Crt.
Nel 2018 le erogazioni hanno toccato quota 1,024 miliardi (+4,1 rispetto al 2017) con una media di importo per ogni progetto di 50.840 euro. Al primo posto figurano l’arte e i progetti culturali (25%), al secondo ricerca e sviluppo (13,7), al terzo volontariato e beneficenza (12,7), al quarto assistenza sociale (11,3), al quinto educazione e formazione (9,8), al sesto lo sviluppo locale. Le erogazioni per l’arte però rispetto a 10 anni fa sono calate del 37%. Inoltre nel 2018 le donazioni sono aumentate rispetto all’anno precedente, ma ciò è avvenuto grazie al ricorso alle riserve contabili visto il risultato d’esercizio negativo determinato dall’andamento con il segno meno dei portafogli delle banche.
MISSIONE SVILUPPO
Da molti anni periodicamente c’è chi individua nelle riserve delle fondazioni un tesoretto prezioso a cui attingere per far ripartire l’Italia. È chiaro che il loro patrimonio fa gola a molti. Le fondazioni però hanno lottato per esaltare la loro natura privatistica, sia pure come soggetti senza fini di lucro. Ma al di là delle mire e degli interessi governativi, la questione della definizione della loro mission strategica resta attuale nel tempo.
Chi ha a cuore il sistema si pone da anni alcune domande. La filantropia può diventare motore di vera innovazione? Le fondazioni possono trasformarsi da erogatrici di risorse in sperimentatrici di processi o addirittura in registi dello sviluppo locale? La sommatoria di contributi versati ai molti soggetti operanti sul territorio può davvero produrre valore aggiunto?
Finora le fondazioni più importanti hanno usato il metodo della sperimentazione esemplare su piccola scala, passando poi i risultati agli enti pubblici per la replica su larga scala. Oggi alcune fondazioni vorrebbero rendersi protagoniste dell’intero processo e avere un ruolo più attivo e completo.
LA LENTE DELLA UE
C’è però un pericolo di cui bisogna tenere conto: la lente dell’Unione Europea da tempo puntata verso le fondazioni. «Quando si suggerisce un loro intervento più attivo e completo nell’economia», spiega Francesco Giuliani, esperto di diritto tributario e partner dello Studio Fantozzi, «è sempre bene tener presente che le fondazioni sono state oggetto di un lungo e complesso contenzioso a livello europeo riguardante la loro natura di imprese e dunque l’assoggettabilità delle stesse alle norme in materia di aiuti di Stato. Le agevolazioni fiscali sono state molto ridimensionate nel corso del tempo a seguito di tale contenzioso, ma l’influenza della politica sulla governance lascia comunque aperto il rischio che quanto più si allontanano dal ruolo di investitori istituzionali e si avvicinano a quello di investitori diretti con influenza sulle scelte imprenditoriali, si espongono al rischio di stimolare nuovamente l’interesse della Commissione Ue».
In ogni caso la riflessione su come innescare veri progetti di sviluppo e di innovazione è comunque attuale. Una indagine di Mercer European Asset Survey dimostra che rispetto al resto d’Europa dagli investitori istituzionali italiani (casse di previdenza, fondi pensione e fondazioni bancarie) arriva poco sostegno all’economia reale. La necessità di invertire la rotta – senza sobbarcarsi rischi eccessivi – esiste. Una sfida, per dirla con il direttore del Sole24Ore Guido Gentili «anche, e soprattutto, culturale, in un paese storicamente bancocentrico, a corto di public company e ricco sì di imprese piccole e medie di successo ma restio a puntarci sopra».
IL CONTROLLO
Naturalmente per fare questo bisogna lavorare per avere un sistema di controllo terzo e una piena accountability – ovvero una vera responsabilità di rendicontazione dei risultati raggiunti che certifichi la validità di ogni progetto finanziato – che non sempre i vari consigli di amministrazione, consigli di indirizzo e collegi sindacali (spesso troppo affollati rispetto agli esigui patrimoni da gestire) sono in grado di garantire.
Sulle colonne di Italia Oggi nei mesi scorsi è andato in scena un interessante botta e risposta tra il presidente di Assopopolari, Corrado Sforza Fogliani e Giuseppe Guzzetti, dal 1997 al 2019 alla guida della Fondazione Cariplo e dal 2000 al 2019 Presidente dell’Acri, in sostanza la figura che più di ogni altra incarna l’essenza, la storia e il progetto profondo delle fondazioni.
Il presidente dell’associazione che riunisce le banche popolari ha posto una serie di questioni a partire da una domanda basilare: gli enti chiamati a gestire le Fondazioni sono ancora rappresentativi delle comunità locali?
Sforza Fogliani definisce le Fondazioni come enti «sostanzialmente auto-referenziali» i cui organi si eleggono e si controllano da soli e poi si chiede: «È una scelta corretta? Si può confermare all’infinito tale status quo? Siamo in una fase in cui si impone la revisione di istituzioni che amministrano soldi pubblici in modo referenziale per di più destinandoli a vari scopi esclusivamente scelti dalle Fondazioni e senza alcun controllo di merito». Questo il suo j’accuse.
Affilata la replica di Guzzetti che, ribadendo la natura privatistica delle fondazioni, ha contestato la tesi che il ministero dell’Economia svolga un «routinario controllo di legittimità». Anzi, secondo Guzzetti, a questa vigilanza istituzionale si aggiunge un controllo più informale «ma altrettanto efficace» realizzato dalla comunità locale. Inoltre nel 2015, rammenta Guzzetti, le Fondazioni e Via XX Settembre hanno sottoscritto un protocollo che rafforza il ruolo di vigilanza del Mef e introduce ulteriori elementi di trasparenza. Trasparenza sulla quale c’è però ancora molto da lavorare. In realtà il legame tra fondazioni bancarie e politica è questione complessa e attuale. Uno studio de lavoce.info del 2013 mostrava quante personalità di provenienza politica fossero presenti nei vari cda, con in testa Monte dei Paschi (la cui fondazione è stata poi travolta dalla crisi di quella che era un tempo la terza banca italiana). Inoltre questi incarichi temporanei si trasformavano in una sorta di investitura perenne.
Le nuove norme, ora, puntano a dare un taglio alle proroghe infinite degli incarichi, proroghe attraverso cui presidenti e amministratori in passato sono riusciti a salvare la poltrona anche per decenni. La durata massima del mandato è stata fissata in quattro anni, rinnovabile una sola volta.
LA DISTANZA TRA NORD E SUD
Altro elemento di discussione è la profonda distanza tra Nord e Sud. Le fondazioni erogano risorse per il 94% al Centronord e per il 6% al Sud. Se è vero che in base alla Legge Tremonti la maggior parte delle risorse deve essere destinata a iniziative di carattere locale è altrettanto vero che molte di queste banche hanno sportelli al Sud e fanno raccolta anche in quest’area del Paese. Per rispondere a questo problema e colmare parte di questo gap l’Acri sta lavorando al progetto della Fondazione per il Sud.
Infine resta forte e sotto i riflettori il rapporto con Cassa Depositi e Prestiti. La presenza delle fondazioni di origine bancaria nell’azionariato (detengono il 15% di Cdp) voluta da Giulio Tremonti venne liquidata come un’operazione di finanza creativa. Si scopre oggi che oltre a essersi dimostrata utile – ad esempio per impedire ai Cinquestelle di trasformare Cdp in un ariete delle nazionalizzazioni – ha fruttato alle fondazioni un rendimento medio lordo annuo dell’11%. Il sogno di ogni piccolo risparmiatore.