La Stampa, 9 settembre 2019
Ritratto di Al Pacino
«È come trovarsi di fronte una tigre» scrissero di lui quando cominciò a mettersi in mostra sul palcoscenico, e poi «non fatevi illusioni: anche quando è rinchiuso in una gabbia è sempre pronto a sbranarvi». Ancora adesso non c’è nulla che lo renda più felice di questa definizione, e te ne accorgi dallo sguardo languido e profondo, che riesce a sedurre e spaventare, rimanendo, in ogni momento, quello di un uomo nato per conquistare.
È un leader, Al Pacino, un trascinatore, sia che interpreti un criminale sia un allenatore di football. Ed è in grado di pronunciare battute definitive mentre ti fissa con uno sguardo magnetico, imprescindibile, che proietta, insieme al carisma, la malinconia di chi ha compreso che anche la più grande delle vittorie, in fondo, è inutile. Forse nessuno ha colto il segreto di quello sguardo quanto Anthony Lane, il quale, recensendo Donnie Brasco sul New Yorker, scrisse: «Nessuno ha più quegli occhi da quando El Greco ha smesso di dipingere i santi». Era magnifico Pacino nel ruolo di quel criminale che non aveva fatto carriera, e basta rivedere quei santi per capire che incutono timore e hanno una spiritualità che nasce dalla carne.
Sono tutti elementi che Alfredo James Pacino porta con sé sin quando da bambino ha assistito con strazio alla separazione dei genitori, e fa impressione pensare che ad aprile compirà ottant’anni: non c’è nulla però che non comunichi ancora la voglia di sbranare. È nato a East Harlem da due siciliani: il padre Salvatore era della provincia di Messina, la madre Kate proveniva da un paese con un nome scolpito nel suo destino: Corleone. Dopo il divorzio la mamma si trasferì nel Bronx assieme ai propri genitori, terrorizzata per le frequentazioni di Al, che oggi racconta: «Passavo le giornate in un’area chiamata Fort Apache, ed era il periodo dell’eroina. La prendevano tutti i miei amici, e nessuno di loro è sopravvissuto». Al dovette giurarle che non era andato mai oltre la marijuana: era vero, ma le aveva nascosto che beveva al punto da rischiare l’alcoolismo.
Quando lei morì, provò il più grande dolore della sua vita: l’esistenza era ingiusta e senza senso, ed era meglio ricrearla in un universo chiuso e modificabile. Ha vissuto a lungo di stenti, dormendo spesso per strada, finché non ha deciso di dedicare la vita alla recitazione, cercando di entrare all’Actors Studio, dove in un primo momento venne rifiutato. Nel giro di poco tempo però Lee Strasberg si accorse di avere di fronte il più grande talento dai tempi di Marlon Brando: oggi è il presidente di quell’istituzione leggendaria e in un incontro a Roma mi spiegò che «anche chi è dotato di talento ha bisogno di studiare, e studiare, e la qualità si raggiunge con il lavoro quotidiano». Quando gli chiesi di parlarmi dei suoi ruoli più famosi mi disse: «Sono grato alla fama e al benessere che mi ha dato il cinema, ma quello che vorrei fare veramente è recitare Amleto in un piccolo teatro».
Mentre cominciava a esibirsi sul palcoscenico interpretò un tossicodipendente in Panico a Needle Park, e poi duettò senza alcun timore reverenziale con Gene Hackman nello Spaventapasseri. Si accorse di lui Francis Ford Coppola e lo scritturò per il ruolo di Michael Corleone nel Padrino. Non fu affatto facile: alla Paramount non ne volevano sapere di questo sconosciuto che chiamavano «midget», il nano, e pretendevano un nome affermato come Ryan O’Neal o Warren Beatty. Coppola riuscì a spuntarla grazie anche all’appoggio di Diane Keaton, già scritturata nel ruolo della moglie Kay: l’attrice aveva una relazione con Pacino e diceva «guardateci, insieme siamo una coppia perfetta». Pacino ricompensò il regista, la fidanzata e il mondo intero con una delle interpretazioni più grandi di tutti i tempi, dove duettò ancora una volta senza timore con Marlon Brando, rendendo immortali battute quali: «È un’offesa alla mia intelligenza», «Su quel contratto ci sarà la tua firma o il tuo cervello» o «Gli ho fatto un’offerta che non poteva rifiutare».
Il trionfo venne replicato nel Padrino parte seconda, e risultò evidente che soltanto un attore con tutto quel talento potesse pronunciare battute quali «Siamo due facce della stessa ipocrisia» o «Tieni gli amici vicini e i nemici ancora più vicino». Fu anche chiaro che solo il suo carisma poteva convincere il pubblico a empatizzare con un criminale che arrivava a far uccidere il fratello: molto si doveva ovviamente anche a Coppola, ma il seguito della carriera ha dimostrato che l’approccio umanista della sua recitazione generava un’attrazione irresistibile anche nei momenti di massima ambiguità morale. Basti pensare al criminale romantico di Carlito’s Way, o a quello improvvisato di Quel pomeriggio di un giorno da cani, che aizza la folla contro la polizia gridando «Attica! Attica!».
È riuscito a dare carisma ed empatia persino a un mostro come Roy Cohn, il quale nega di avere l’Aids in Angels in America, dicendo «ho un tumore al fegato, sono i froci che hanno l’Aids». E a Scarface, al quale regala un’altra battuta passata alla storia: «Say hi to my little friend» (la versione italiana traduce misteriosamente: «Salutatemi il mio amico Sosa»). Ha fatto ripetutamente scelte rischiose come Cruising, per cui fu inviso per molto tempo alla la comunità gay, e non sono mancati errori quali Revolution o momenti in cui si è compiaciuto dei propri manierismi, a cominciare dalla voce roca e le improvvise esplosioni di rabbia. Ma pochi interpreti come lui sanno impadronirsi di un’inquadratura o di un palcoscenico: sembra che non abbia paura di niente, quando recita, e che almeno in quel momento la vita abbia un senso, anche quando è tragica.
Il modo in cui ha interpretato Marc’Antonio nel Giulio Cesare è rimasto nella leggenda dello spettacolo, ed è illuminante che abbia voluto confrontarsi anche con Shylock e poi, come regista, con un altro tragico personaggio shakespeariano quale Riccardo III. Non meno interessante il fascino che prova per uomini dal destino tragico come Modigliani, sul quale ha tentato di realizzare un film, e di Oscar Wilde, del quale ha messo in scena la Salomè. Ed è del tutto originale il modo in cui si prepara per i ruoli: per Scarface ha studiato il pugile Roberto Duran, pensando anche a Meryl Streep nella Scelta di Sophie.
Ormai ha raggiunto sessant’anni di carriera e accetta offerte solo da amici quali David Mamet o registi con cui non aveva mai lavorato come Scorsese e Tarantino, continuando ad avere come modello Picasso: «Quando penso al modo in cui concepisco la recitazione mi viene in mente Picasso di fronte alla tela vuota». È lunga la lista di donne che ha amato, e inaspettata quella di amici personali, a cominciare da Carlo d’Inghilterra. Non meno sorprendente la lista di film importanti che ha rifiutato: Kramer contro Kramer, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Apocalypse Now, Pretty Woman e persino Guerre stellari, dove George Lucas lo voleva come Han Solo.
Non ha rimpianti, però, salvo l’essere identificato con troppi ruoli negativi, compreso quello del demonio che irretisce Keanu Reeves nell’Avvocato del diavolo. In occasione di una retrospettiva al Lincoln Center chiese di mostrare un suo film intitolato City Hall. Quando gli venne fatto notare che era un film in fondo trascurabile, sgranò gli occhi da santo e ci disse: «Lo so, ma interpreto il sindaco di New York e ci tengo che i miei cari mi vedano in quel ruolo».