La Stampa, 9 settembre 2019
Intervista a Jonathan Safran Foer
Nella battaglia globale per la difesa dell’ambiente, Jonathan Safran Foer ha scelto da tempo la strada della chiarezza. Negli ultimi dieci anni, a fronte di un solo romanzo (Eccomi), ha pubblicato due saggi sull’argomento. Nel 2009 era uscito Se niente importa una condanna degli allevamenti intensivi che sarebbe stata alla base della svolta vegana dello scrittore. Ora lo scrittore statunitense torna in libreria con Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda), che ci squaderna davanti agli occhi le conseguenze dei cambiamenti climatici e che presenterà domani alle 18 nell’Aula Magna della Cavallerizza per il primo appuntamento di «Aspettando il Salone». Dialogherà con lo scrittore Paolo Giordano.
Il suo ultimo lavoro è un originale pamphlet che amalgama i freddi dati scientifici con ricordi personali, storie di famiglia, episodi biblici, squarci di futuri possibili. «L’essere umano funziona in maniera particolare - dice -. Prova un coinvolgimento reale solo per ciò che ha materialmente di fronte, mentre tende a ignorare ciò che è più defilato. Come se accadesse altrove e ad altri. Quindi, nonostante le migliaia di cose che potrebbe fare per salvare il pianeta, non fa nulla».
Qual è l’errore più grosso commesso dai mass media nel comunicare il riscaldamento globale?
«Quello di scriverne in maniera equidistante, come se ci fossero pro e contro. Come se le opinioni di chi accetta i dati scientifici e di chi li confuta fossero equivalenti. È un approccio culturale completamente sbagliato».
Che cosa pensa della giovane attivista Greta Thunberg?
«Ogni bene possibile, provo per lei un profondo senso di gratitudine per tutto quello che sta facendo».
Però molta gente la canzona.
«Molta gente canzona chiunque. È il loro modo per ricevere attenzione, per darsi più importanza di quella che in realtà hanno. Su Internet è pieno di arrabbiati. Invece di focalizzarsi su qualcosa di più costruttivo, alzano la voce senza avere niente da dire».
La famiglia di sua madre viene dalla Polonia e dall’Ucraina. Cos’è per lei l’Europa?
«La terra delle storie fondative della mia infanzia, quelle che mi raccontava mia nonna. Ogni individuo ha le sue, sono i mattoncini su cui si costruisce la personalità».
Nel film tratto dal suo primo romanzo, Ogni cosa è illuminata», il suo ruolo è interpretato da Elijah Wood. Che effetto le ha fatto vedersi sullo schermo con il volto di qualcun altro?
«È stata un’esperienza stranissima, ma ho preferito affrontarla con distacco, da spettatore. Il film mi è piaciuto, ho trovato la storia divertente».
Quel romanzo è stato rifiutato da numerosi editori, al punto che è arrivato a un millimetro dal non essere mai pubblicato. In tal caso che cosa avrebbe fatto della sua vita?
«Quand’ero giovane avrei voluto diventare un dottore, avevo persino iniziato medicina. Forse avrei fatto quello».
Da matricola alla Princeton University ha avuto una docente di scrittura d’eccezione: Joyce Carol Oates. Che ricordi ha di lei?
«Ne ero terrorizzato. È sempre stata onesta, anche a costo di esprimere opinioni severe. Però ci incoraggiava, diceva sempre che il primo requisito per uno scrittore è l’energia. In tanti devono a lei la loro carriera letteraria, io per primo».
Ora è passato dall’altra parte della cattedra, insegna scrittura alla New York University.
«Una delle cose magnifiche dell’America è che nel tempo l’approccio alla letteratura è molto cambiato, diversificandosi. Guardo i miei studenti e li vedo esprimere pensieri nuovi, figli di un nuovo modo di vedere il mondo».
Gli e-book rimpiazzeranno i libri?
«Ci sono elementi a favore e contro questa tesi, ma la questione non è così importante. Se grazie alla loro diffusione i lettori raddoppieranno, ben venga».
Com’è cambiata la sua vita da quand’è genitore?
«Diciamo che le frecce che mi indicavano la strada si sono spostate in una nuova direzione».