la Repubblica, 8 settembre 2019
I suicidi delle neomamme
È una rivoluzione che ha una data d’inizio ma, se tutto va come deve andare, non ha un termine. Comincia con il primo test di gravidanza, e non si conclude mai: si rimane madri a vita, anche quando i figli, ormai grandi, sono fuori di casa. Eppure ci sono delle donne per le quali questa rivoluzione permanente - di ruolo, di condizione, di stato: passare da individuo a genitore – diventa un peso insopportabile. Qualcuna non ce la fa. E sceglie di sottrarsi con la morte, spesso violenta, per impiccagione o precipitazione. Un fenomeno raro ma presente anche in Italia, seppure in misura minore rispetto ad altri paesi, soprattutto del Nord Europa. Il suicidio è infatti una delle cause di mortalità materna tra le più rilevanti e comuni a un anno dalla fine della gravidanza nei paesi industrializzati.
Lo evidenzia uno studio pubblicato sugli Archives of Women’s Mental Health e condotto dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità guidati da Ilaria Lega, del Reparto salute della donna e dell’età evolutiva dell’ISS diretto da Serena Donati. Lo studio è il primo contributo originale su questo tema da parte di un paese dell’Europa mediterranea, e verrà reso noto in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, nata su iniziativa dell’International Association for Suicide Prevention (IASP) e con il sostegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che si celebra il 10 settembre.
La ricerca si basa sui dati contenuti nel Sistema di sorveglianza della mortalità ostetrica (Italian Obstetric Surveillance System – ItOSS). “Analizzando i dati provenienti da 10 Regioni italiane, nelle quali si verifica il 77 per cento delle nascite nazionali, tra il 2006 e il 2012 abbiamo notato un’anomalia: 67 casi di suicidio materno, in un paese caratterizzato per altro da un basso tasso di suicidi femminili (2,1 ogni 100 mila abitanti). Possono sembrare cifre poco rilevanti, e in parte lo sono se paragonate a quelle più alte di paesi come il Regno Unito, ma che comunque fanno riflettere. Soprattutto perché sono in parte evitabili”, spiega Lega. I numeri raccontano dunque di 2,3 suicidi ogni 100 mila nati vivi. Ma per avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, continua la ricercatrice, bisogna sapere che la mortalità materna per emorragia ostetrica, che è la principale causa di mortalità materna da complicazioni ostetriche in Italia, ha causato 1,92 decessi ogni 100 mila nati vivi nelle stesse Regioni.
Chi sono queste madri che scelgono di togliersi la vita? Si tratta nel 60 per cento dei casi di donne con una patologia psichiatrica preesistente: spesso una diagnosi importante di depressione grave o disturbo bipolare, e un passato di ricoveri ospedalieri o terapie a base di psicofarmaci. “Dallo studio emergono anche altre variabili: la prima è che la mortalità materna per suicidio è più elevata nelle Regioni del Nord-Est del paese (4,56) rispetto a quelle del Nord-Ovest (1,83) e alle Regioni meridionali e insulari (1,93). La seconda è che il tasso di suicidio entro un anno dal parto tende ad essere più frequente nelle donne che hanno figli oltre i 40 anni, rispetto a quelle delle decadi precedenti”, aggiunge Lega. A rappresentare un fattore di protezione, invece, è la presenza di altri figli da gravidanze precedenti.
Studi effettuati anche in altri paesi dicono che se intorno alla neomadre c’è un sostegno (un compagno, una rete di relazioni, una famiglia alle spalle), il rischio si riduce. Il punto, sottoliena allora la ricercatrice, è che alla prevenzione del suicidio di queste donne “a rischio” manca la connessione tra i diversi ambiti di cura. Lo psichiatra dovrebbe confrontarsi con il ginecologo e con l’ostetrica, anche in assenza di sintomi. E invece, sebbene la diagnosi di disturbo mentale avvenga in molti casi prima o durante la gravidanza, in 2 donne su 3 la presenza di queste patologie non viene registrata insieme alle informazioni ostetriche. Oltre all’attenzione per i cambiamenti fisiologici che avvengono nel corpo di una donna in gravidanza, sarebbe importante avere cura anche dei cambiamenti emotivi, con assistenza specifica, servizi e spazi dedicati proprio alle donne più fragili, e formazione adeguata per tutti gli operatori che gestiscono il percorso della gravidanza e della nascita: un settore che in altri paesi è più sviluppato, e che in Italia invece sta ora muovendo solo i primi passi.
“Per essere genitori – conferma Lucio Rinaldi, responsabile UOS Day-Hospital di Psichiatria del Policlinico Gemelli IRCCS di Roma e autore per FrancoAngeli di “Sul nascere madri e padri” – è necessario elaborare una sorta di lutto: abbandonare il proprio ruolo di figli e assumerne un altro, ricco di gioie ma anche di fatiche e responsabilità. Significa la perdita del proprio assetto. E questo a volte provoca una grande sofferenza, e non tutte le donne sono pronte ad affrontare questa trasformazione”. Dal suo osservatorio dall’ampia casistica (4000 parti l’anno nella struttura della capitale) Rinaldi spiega perché a volte qualcuna non ce la fa. “Il viaggio interiore che si deve compiere per diventare madri e padri mette inconsciamente in contatto con la propria esperienza e il proprio vissuto di figli”, continua Rinaldi. E se sono già presenti difficoltà psicologiche si possono verificare forme depressive, comportamenti d’ansia o maniacali, fino a più rare forme psicotiche.
Anche tra i padri: un aspetto generalmente trascurato ma che ultimamente diversi studi stanno mettendo in luce. “Anche nei partner la nascita di un figlio è un momento delicato”, continua Rinaldi. Se la depressione post-partum in forma grave colpisce fino al 14 per cento delle neomadri, anche tra i padri possono verificarsi forme depressive, seppure con caratteristiche diverse. In genere, continua lo psichiatra, i maschi assumono forme maniacali, con attivazioni al di fuori della coppia. L’arrivo di un bambino in famiglia necessariamente cambia i livelli di intimità sessuale nella coppia, e si modificano al tempo stesso anche le richieste delle donne, che hanno necessità di protezione, aiuto, accoglienza, tolleranza ai cambiamenti di umore. Se l’uomo non è in grado di supportare anche emotivamente la sua compagna, può sentirsi schiacciato da questo nuovo ruolo e fare fatica a sostenere l’esperienza della genitorialità. Purtroppo, aggiunge Rinaldi, nei luoghi predisposti a seguire gravidanze e nascite c’è una rimozione sociale del disagio paterno, e manca una formazione specifica tra gli operatori. Per di più i padri sono difficili da coinvolgere, tendono a defilarsi anche quando avrebbero bisogno di aiuto. In questo senso sarebbe importante promuovere un approccio integrato alla genitorialità, che sappia riconoscere i segni del disagio degli uomini senza però metterli all’angolo e senza colpevolizzarli per la loro fragilità.