la Repubblica, 8 settembre 2019
Il taglio dei parlamentari e la legge elettorale proporzionale
Una piccola rivoluzione della Costituzione in cinque punti. Per blindare la legislatura e trasformare il brutto anatroccolo di questa nuova maggioranza in una coalizione costituente. Il tentativo, insomma, di dare “sostanza” istituzionale all’intesa.
Ecco il patto delle riforme siglato da Pd e M5S nei giorni scorsi. Cinque interventi per ritoccare la nostra “Carta” e cambiare radicalmente la legge elettorale. Il tutto condito da uno stratagemma scovato dai legulei dei due partiti: una norma del 1970 che consente di far slittare di sei mesi i referendum confermativi, quelli riguardanti appunto le riforme costituzionali.
Il punto di partenza delle discussioni svolte su questo punto nei giorni che hanno preceduto la formazione del governo era costituito dal cosiddetto “taglio” dei parlamentari. Per l’approvazione in Parlamento manca solo l’ultimo voto, alla Camera. I grillini lo considerano un provvedimento irrinunciabile. Ormai per i pentastellati è una parola d’ordine che non si può tradire. La prospettiva di una marcia indietro come è accaduto ad esempio sulla Tav e sul Tap ha terrorizzato il gruppo di comando del Movimento. Il Pd, che si è sempre dichiarato contrario, ha invece bisogno di giustificare la sua conversione.
L’ipotesi iniziale consisteva nel riscrivere l’intero progetto e inserire il cavallo di battaglia grillino in un contesto complessivo. Ma non c’è stato niente da fare. L’unica soluzione possibile consiste nell’approvare il “taglio” ma con una serie di «contestuali» garanzie.
I due nuovi alleati, del resto, hanno in questa fase bisogno di assicurazioni reciproche. In sintesi: il “taglio” deve essere approvato in tempi brevi ma incardinandolo in un quadro più organico.
L’idea allora è di presentare alla Camera e al Senato, con una road map piuttosto stringente, due altri provvedimenti di iniziativa parlamentare (da notare che non è stato nominato un ministro per le riforme). Il primo tocca ancora la Costituzione. Sarebbe il “contesto” reclamato dai democratici. Una sorta di precondizione per “digerire” la sforbiciata a deputati e senatori. Un testo articolato in cinque punti fondamentali: l’introduzione della sfiducia costruttiva (si può presentare una mozione di sfiducia solo indicando una maggioranza alternativa, un fattore di stabilità), la riduzione del numero dei delegati regionali che partecipano all’elezione del presidente della Repubblica, la partecipazione dei Governatori all’Assemblea di Palazzo Madama quando vengono discusse e scrutinate norme riguardanti le regioni, la parificazione di elettorato attivo e passivo tra i due rami del Parlamento (18 anni per votare, 25 per essere eletti) e il voto di fiducia all’esecutivo in seduta congiunta per limitare i pericoli – spesso registrati negli ultimi anni – derivanti dalla presenza di “numeri” diversi a Montecitorio e Palazzo Madama.
L’accordo demo-grillino, però, non si poggia solo sui contenuti. I tempi di approvazione stanno assumendo un ruolo fondamentale. Nella sostanza il Pd ha chiesto e ottenuto di far entrare in vigore tutte queste modifiche contestualmente al taglio dei parlamentari. Come? Appunto ricorrendo alla legge 352 del 1970. Al suo interno, infatti, c’è un articolo – il 15 – che non è mai stato utilizzato e che sembra essere fatto su misura per accontentare i democratici: «Qualora sia intervenuta la pubblicazione a norma dell’articolo 3, del testo di un’altra legge di revisione della Costituzione o di un’altra legge costituzionale, il Presidente della Repubblica può ritardare, fino a sei mesi oltre il termine previsto dal primo comma del presente articolo, la indizione del referendum, in modo che i due referendum costituzionali si svolgano contemporaneamente con unica convocazione degli elettori per il medesimo giorno». L’obiettivo dunque è organizzare una sorta di election day, o meglio di referendum day. Un solo giorno per dare il via libera a tutte le riforme.
Per raggiungere questo obiettivo, l’ultimo passaggio a Montecitorio sulla legge tanto voluta dall’M5S dovrebbe essere calendarizzata non prima di novembre o subito dopo la conclusione della sessione di Bilancio. Da quel momento la maggioranza avrebbe altri 8 mesi – questi sono i tempi fissati dai codici che disciplinano le procedure per la convocazione della consultazione referendaria – per approvare la legge “contesto” voluta dal Pd. Uno scadenzario del genere porterebbe le lancette del Parlamento a luglio o a settembre 2020. Da quel momento tutto slitterebbe di altri sei mesi per indire in un solo giorno i due referendum confermativi.
Una gigantesca manovra, insomma, per blindare il governo Conte e la legislatura. Che in questo quadro avrebbe dinanzi a se un percorso di quasi un anno e mezzo. Senza contare che pochi mesi dopo scatterà un’altra scialuppa di salvataggio per la legislatura: il semestre bianco. Il periodo che precede l’elezione del capo dello Stato nel quale non si possono sciogliere le Camere, infatti, prende il via il 3 agosto 2021. Questo è almeno l’itinerario teorico immaginato dai giallorossi.
Parallelamente dovrebbe procedere il secondo provvedimento concordato dai capigruppo dei due partiti. Non si tratta di una proposta di legge costituzionale, ma ordinaria. Ma probabilmente è anche la più delicata. Una sorta di “salva-vita” per il Pd e il M5S. Ossia la riforma elettorale. Le “garanzie” invocate dai Dem, infatti, sono centrate proprio sul sistema di voto. Quello in vigore (un misto tra proporzionale e maggioritario), per molti presenta dei profili di incostituzionalità. In particolare se davvero verrà ridotto il numero di deputati e soprattutto di senatori. In alcune regioni, ad esempio, potrebbe non essere garantito il principio di rappresentanza. Nelle circoscrizioni meno popolose persino un partito del 15 per cento non eleggerà nemmeno un rappresentante. L’intesa di massima già raggiunta, allora, farebbe perno su un sostanziale ritorno alla legge proporzionale tout court. Come nella Prima Repubblica. Temperata solo da una soglia di sbarramento al 4 per cento. Non è un caso che sulla base di questa indicazione persino il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, abbia già fatto sapere di essere interessato ad un coinvolgimento e quindi ad una adesione a questo progetto. Un ulteriore elemento di stabilizzazione della legislatura. Una situazione che certo non risulta gradita a Matteo Salvini. Il leader leghista si sente vittima di questo “impegno costituente”. Per il patto Pd-M5S, invece, è la premessa per mettere in sicurezza il sistema istituzionale e dei partiti. E porre le premesse per la definizione di un nuovo arco costituzionale.