La Lettura, 8 settembre 2019
La band dei laureati
«L a ragione del successo dei Queen? Il mio eccezionale carisma, naturalmente». Freddie Mercury era un uomo posseduto dal senso dello spettacolo, con un’ironia spiazzante quanto il suo talento. «Il pubblico vuole l’arte, vuole lo show business, vuole vederti uscire dalla tua limousine» diceva a proposito del modo in cui i Queen hanno interpretato il messaggio di libertà del rock e costruito la propria identità.
Ma non è solo una la ragione del successo di una band da oltre trecento milioni di dischi venduti che ha conquistato una generazione dopo l’altra fino a diventare un’icona globale con pochi precedenti nella storia della musica. Basta l’esempio della canzone-simbolo Bohemian Rhapsody: dopo avere fatto la storia del formato fisico della musica (è uno dei tre singoli più venduti di tutti i tempi in Inghilterra) è entrata in quella dello streaming diventando nel dicembre 2018 il brano più ascoltato di sempre, con oltre 1,6 miliardi di riproduzioni.
È una delle «storie dietro le canzoni» raccontate da Roberto De Ponti in Queen. Opera Omnia, libro pubblicato da Giunti che raccoglie aneddoti, interviste e dettagli musicali su tutti i brani dei Queen tra il 6 luglio 1973, data dell’esordio con il singolo Keep Yourself Alivefino al 19 ottobre 2018 in cui è uscito l’ultimo inedito, reinterpretazione della 20th Century Fox Fanfare fatta da Brian May e Roger Taylor per la colonna sonora del film Bohemian Rhapsody.
Decine di canzoni che rappresentano il percorso di formazione di una band che De Ponti definisce atipica: quattro studenti (tra i vari record c’è anche quello di essere l’unica band in cui tutti i componenti sono laureati: May in Fisica, Taylor in Biologia, Deacon in Elettronica, Mercury in Fashion Design) che hanno conquistato il mondo con brani diversissimi per scrittura (altro record: tutti e quattro i membri hanno firmato almeno un singolo che è arrivato al numero uno in classifica e per questo sono l’unica band inserita con tutta la formazione nella Songwriter Hall of Fame), genere e strumentazione ma con un suono inconfondibile e una qualità ineccepibile, nata dalla cura maniacale di ogni dettaglio.
È difficile spiegare perché i Queen continuano a essere una delle band più popolari al mondo a 28 anni di distanza dalla scomparsa del loro frontman (Mercury è morto il 24 novembre 1991).
Ci ha provato Rami Malek, protagonista di Bohemian Rhapsody: «Freddie era un immigrato in cerca di una propria identità». Il film di Bryan Singer ha restituito profondità alla figura di Mercury, diluita negli anni dalla sua irrefrenabile tendenza alla frivolezza e dalla ritrosia a parlare di sé stesso fuori dai codici espressivi del personaggio che aveva creato per il palco. Quando ha ritirato l’Oscar come migliore attore protagonista, Rami Malek, ragazzo di origine egiziana che sognava la recitazione ma a Hollywood consegnava pizze e cucinava falafel, ha detto: «A chiunque stia soffrendo per l’accettazione della propria identità: abbiamo fatto un film su un uomo gay, un immigrato, che per tutta la vita ha lottato per affermare sé stesso, senza paura e senza vergogna. Il fatto che lo si stia celebrando stasera è la prova che abbiamo bisogno di storie come questa».
Nato nell’agiatezza di una famiglia di funzionari dell’Impero britannico a Zanzibar, esposto fin dall’infanzia a influenze culturali esotiche (a partire dalla religione zoroastriana praticata dalla sua etnia parsi) e allo stesso tempo educato nei collegi dell’élite coloniale inglese in India, Freddie vede il suo mondo crollare nel 1964 quando Zanzibar diventa un sultanato arabo. La rivolta della popolazione africana costringe gli inglesi e le minoranze indiane a fuggire e lui si ritrova in una villetta a schiera a Feltham, periferia sud di Londra.
A Zanzibar e in India era un privilegiato, a Londra si chiama Farrokh Bulsara ed è il prototipo dell’immigrato: nessuno capisce da dove venga esattamente e comunque a nessuno importa perché a Feltham ogni straniero è un «paki».
Però ha 17 anni e vive a due ore di metropolitana dalla Swinging London: la Piccadilly Line lo porta dritto nell’epicentro della rivoluzione di stile di Kensington Market (in cui conosce la sua musa, Mary Austin, e apre una bancarella di vestiti insieme a Roger Taylor) e poi dritto nella scena musicale dei college, in cui girano talenti come Pete Townshend, Ron Wood e Brian May.
Il film ha regalato al pubblico una storia affascinante e senza tempo: un ragazzo che trova dentro di sé la forza per diventare qualcuno, usando la propria sensibilità artistica e un’identità stravagante tenuta nascosta per anni per trasformarsi in una delle rockstar più spettacolari mai esistite.
L’altra ragione del successo dei Queen sta nella formula stessa delle grandi band, in cui l’insieme è maggiore della somma delle singole parti. «Io sono soltanto quello che sta in prima linea», diceva Mercury. L’incontro delle sue idee artistiche con musicisti e personalità così differenti come Brian May, Roger Taylor e John Deacon ha creato alcune delle caratteristiche principali della band: l’eclettismo, la ricerca spasmodica dell’eccellenza e allo stesso tempo la capacità di trovare sempre la chiave per arrivare al pubblico. L’alchimia come incontro di opposti: l’astrofisico May che si è costruito la chitarra da solo, il rocker Taylor amante delle donne e dei motori, il tranquillo Deacon esperto di tecniche di registrazione. In una scena di Bohemian Rhapsody, durante un litigio Taylor dice a Mercury: «Senza di noi lavoreresti ancora a Heathrow». (Appena arrivato a Feltham, Freddie aveva trovato impiego nel catering dell’aeroporto). «E tu saresti un dentista», risponde lui rinfacciandogli gli studi all’Hospital Medical School.
Infine c’è l’intuito nell’interpretare lo spirito del tempo, una ricerca dello Zeitgeist musicale che ha portato i Queen a lasciare il segno su tre decenni. Negli Anni ’70 della sperimentazione partono dall’Art rock di Killer Queen per creare un nuovo genere Opera rock con Bohemian Rhapsody e Somebody to Love, negli Anni ’80 sono una macchina di successi pop, da Another One Bites the Dust a Radio Ga Ga, negli Anni ’90 con Innuendo allargano la visione per realizzare quello che diceva Mercury agli esordi: «Mescoleremo generi, varcheremo confini».
Proprio per la loro impermanenza i Queen sono una band che appartiene a tutti, senza in realtà appartenere a nessun genere o epoca musicale. Nell’introduzione ad Opera Omnia, Roberto De Ponti scrive: «È difficile immaginare che alcuni dei singoli di maggiore successo dei Queen siano stati scritti da un unico gruppo». In effetti le canzoni dei Queen – ripeteva Mercury – «sono pura evasione. Dopo averle ascoltate gli spettatori possono andarsene, dire che è stato grandioso e tornare alla loro vita».