La Lettura, 8 settembre 2019
Le lettere tra Kafka e Milena
«Se vieni da me, salti nell’abisso», scrive Kafka a Milena il 13 giugno 1920. Un avvertimento, un ironico invito? Un tentativo (spesso reiterato) di sedurre respingendo? Da qualche mese, tra la pensione Ottoburg di Merano, dove lo scrittore cerca di combattere il decorso della tubercolosi, e la casa viennese di Milena Jesenská scorre un fiume in piena di lettere, cartoline, telegrammi.
Si erano conosciuti fugacemente in un caffè di Praga, la primavera precedente, quando Milena aveva iniziato a tradurre in ceco alcuni racconti di Kafka. Per lui, di madrelingua tedesca, si tratta della lingua di un «popolo», scarsamente frequentato e compreso. E senza dubbio, le traduzioni che Milena pubblica dei suoi scritti gli rivelano possibilità sorprendenti, inespresse. Come la prova che qualcuno, nel mondo, vede le stesse cose. Un fatto che per lui, che si sente l’uomo più solo del mondo, ha la natura del sovrannaturale. Soprattutto, Kafka ha la sensazione, di lancinante intensità, di aver trovato, lui che è «colpevole di tutto», una donna che lo capisce, e non lo accusa di nulla. Non poteva nemmeno sospettare, all’inizio, quanto avesse ragione.
Tra aprile e dicembre del 1920, spedisce a Milena qualcosa come centotrenta lettere. Non è un caso se a un certo punto le affiderà anche i suoi diari: perché quella che Kafka compone con le Lettere a Milena è una vera confessione, un esercizio di verità condotto con il rigore richiesto dalle occasioni irripetibili. E il bello è che nemmeno un romanziere avrebbe potuto inventare una figura femminile secondo tutte le apparenze non adatta a Kafka come la sua traduttrice.
Di famiglia cristiana, figlia di un famoso chirurgo praghese, colta e insofferente delle convenzioni bigotte del suo ceto, Milena era quello che si dice una persona libera, e a ventiquattro anni già si portava sulle spalle il peso di molti errori e illusioni. Si era trasferita a Vienna, dove faceva la fame (o quasi) bandita dalla famiglia, che non le aveva perdonato il matrimonio con un ebreo, lo scrittore Ernst Pollak, anche lui di Praga, ben conosciuto da Kafka. Milena ed Ernst vivono praticamente di espedienti, in una promiscuità sessuale che non rende felice Milena, che in quel periodo finisce anche nei guai per un furto. Nella loro cerchia si fa abitualmente uso di cocaina. Che cos’ha da spartire quel mite, abitudinario, castissimo, irreprensibile impiegato che è Kafka con una persona talmente aliena dal suo schema di esistenza da apparirgli come il personaggio di un sogno? Eppure, Milena è un angelo, l’«angelo degli ebrei». Incontrandola, a quattro anni dalla morte, a Kafka sembra di riuscire a orientare le sue forze spirituali in direzioni mai nemmeno presagite.
Ho spesso pensato a quale potrebbe essere una sintesi efficace per esprimere la profondissima influenza che Milena ha esercitato su Kafka. Ebbene, mi sembra che Milena incarni, ai suoi occhi, l’impossibilità suprema, ovvero la vivibilità della vita. Tutto quello che viene da lei, suona come una rivelazione in questo senso. Nel loro ricchissimo commento a queste lettere, Guido Massino e Claudia Sonino hanno rintracciato moltissime allusioni a Dante, in particolare alla Vita nuova e al Purgatorio. L’idea è convincente: Milena è sicuramente una specie di Beatrice. Ma quest’ultima guida Dante in un percorso ascendente, fino alla luce delle supreme certezze metafisiche; al contrario Kafka non ha nessun bisogno di una guida verso l’alto, lui sa lasciarsi il mondo alle spalle fin troppo bene, lo fa ogni notte, semmai Milena indica la terra, desidera condividere la sua gioia di vivere con quell’uomo così difficile, così pronto a rifugiarsi in una delle sue innumerevoli «tane». Non ha nient’altro di così prezioso da offrirgli. Ma solo organizzare una visita da Merano (o da Praga) a Vienna si rivela presto un’impresa labirintica, in cui ogni minimo, normalissimo impedimento ne genera altri mille. È una maniera di procedere che getterà presto Milena nel dubbio di sbagliare qualcosa. Kafka si avvicina mentre si allontana, e viceversa; si offre tutto intero e mette in guardia l’amata nel giro della stessa lettera, della stessa frase. L’unica cosa che gli viene facile e naturale è l’erigere ostacoli. Bisogna sempre considerare che Kafka, a differenza di Milena, si sente un mostro. Non osa porgere alla «fanciulla», come la Bestia della favola, la sua mano «sporca, convulsa, adunca, irrequieta, incerta, ardente e fredda». Due cose lo tormentano: il senso della sua «pesantezza», che rischia di far sì che l’«angelo» anziché salvarlo precipiti assieme a lui nel buio; e l’ossessione della «sporcizia», che gli preclude ogni piacere carnale («io sono sporco, Milena, infinitamente sporco, per questo faccio un tal putiferio con la pulizia»).
È così che, mese dopo mese di questo indimenticabile 1920, l’intimità epistolare diventa il registro di una specie di catastrofe psichica annunciata. Il fatto che lei non se la senta di abbandonare Pollak al suo destino è decisamente secondario. Per Kafka, ha tutta l’aria di un vantaggio. Ci si chiede che cosa avrebbe fatto Kafka altrimenti, a che tipo di impossibilità sarebbe ricorso. Il fatto è, come le scrive il 21 luglio, che sono entrambi sposati: «Tu a Vienna, io con l’angoscia a Praga, e non solo tu, ma anch’io, trasciniamo vanamente il nostro matrimonio».
Verso la fine dell’anno, i nodi vengono al pettine, subentra una certa freddezza. Le lettere a Kafka di Milena non si sono conservate, ma ne bastano un paio a Max Brod, l’amico fedelissimo, e il necrologio pubblicato nell’estate del 1924 per intuire quanto a fondo Milena, nonostante tutta la selva di ostacoli, avesse compreso e accettato quell’uomo nella sua irriducibile solitudine. «Non ha il minimo rifugio, il minimo riparo», scrive Milena a Max Brod, «per questo è esposto a tutto quello da cui noi siamo protetti. È come una creatura nuda tra creature vestite».
Dopo la morte di Kafka, Milena continuò a tradurlo e a custodire le opere che le aveva affidato. Era un’ottima giornalista, e quando i tedeschi invasero la Cecoslovacchia entrò nella Resistenza, aiutando a fuggire molte famiglie ebree. Catturata dai nazisti, morì nel campo di concentramento di Ravensbrück nella primavera del 1944. Molti hanno scritto su questa donna straordinaria, vera figlia del suo secolo tempestoso. È bellissimo il ritratto che le fa Margarete Buber-Neumann, militante comunista che l’aveva conosciuta a Ravensbrück, in un libro intitolato Milena. L’amica di Kafka.
Ma terminate le lettere e gli altri scarni documenti, è nelle pagine dello stesso Kafka che conviene ancora cercare notizie di Milena. Si potrebbe arrivare a dire che Il castello, lasciato interrotto nel 1922, è il secondo capitolo della storia raccontata nelle Lettere a Milena. Perché se la vita è impossibile a Kafka, la sua prodigiosa immaginazione è capace di rispondere a tutto ciò che nella vita gli appare come un simbolo, un ambiguo segnale di salvezza e perdizione. E la Frieda del Castello irrompe nella prosa di Kafka, tra tutti i suoi eroi maschili, come il personaggio femminile dotato del maggiore fascino e della maggiore complessità, anche se il suo potere non basterà a far progredire davvero nel suo compito l’agrimensore K.
Ci si può chiedere quali furono le emozioni di Milena alla lettura del romanzo, pubblicato postumo da Max Brod nel 1926. Non era né il primo né l’ultimo essere umano in carne e ossa a riconoscersi in una finzione. Ma la trasfigurazione di Kafka è uno dei casi più memorabili della storia della letteratura, perché nessuno più di lui era capace di trattare l’esperienza reale mirando dritto al suo cuore di verità, scartando nell’atto della scrittura tutte le scorie dell’aneddotico, del futile, del transitorio. La vera vita non è ciò che accade, ma il suo significato o meglio la ricerca interminabile del suo significato. E se ogni atto di coscienza è un esame di coscienza, Milena fu per Kafka, come le scrisse in una lettera, il coltello capace di affondare nelle sue pieghe più nascoste e irraggiungibili.