La Lettura, 8 settembre 2019
1969, l’autunno più caldo
In Italia il cosiddetto Sessantotto durò in realtà tre anni. Iniziò nel 1967, con le prime occupazioni delle università. Nella primavera del 1968 il movimento studentesco decise di collegarsi a quello operaio, allora impegnato in diverse vertenze con il governo (sulla riforma previdenziale) e con i «padroni» (rinnovo dei contratti). La mobilitazione si protrasse per tutto l’anno successivo, culminando nel famoso autunno caldo del 1969.
Le proteste affondavano le proprie radici negli squilibri del sistema economico e sociale italiano. Molte istanze di cambiamento portate avanti da studenti e operai (nella scuola, nelle fabbriche, nel welfare) erano legittime. Alcune riforme varate negli anni Settanta (casa, servizi sociali e sanitari, democrazia locale, diritto di famiglia) furono il risultato degli scossoni provocati dal Sessantotto. Tuttavia, nel corso del loro intreccio, i due movimenti (studentesco e operaio) caddero vittima di un crescente estremismo ideologico e rivendicativo che provocò seri danni.
Al netto delle influenze internazionali, gli eventi del triennio 1967-1969 risentirono di un clamoroso fallimento: quello del centrosinistra e del suo ambizioso progetto di modernizzazione politico-istituzionale. Giocarono sia debolezze interne alla coalizione di governo sia dinamiche esterne: soprattutto l’aggressiva opposizione del Pci e della Cgil.
Le debolezze interne furono evidenti proprio nel settore della politica universitaria. Dopo l’introduzione della scuola materna e la riforma dell’istruzione dell’obbligo, nel 1965 il democristiano Luigi Gui aveva elaborato un ampio progetto per il cambiamento degli atenei. In linea con le tendenze europee, gli obiettivi erano molteplici: riorganizzare la didattica in tre livelli (diploma professionalizzante, laurea, dottorato di ricerca); flessibilizzare l’organizzazione accademica, istituendo i dipartimenti e depotenziando le facoltà; aprire nuove sedi al Sud; investire nelle infrastrutture per didattica, ricerca e residenze; accrescere il numero di iscritti rafforzando il diritto allo studio. Alle frange più politicizzate degli studenti non piacevano i riferimenti del piano Gui al merito e alla selezione, l’enfasi sui legami con il mondo del lavoro (soprattutto per i diplomi), la partecipazione dei rappresentanti del mondo produttivo agli organi decisionali. Ma, con qualche aggiustamento, la riforma Gui avrebbe potuto essere approvata entro il 1967. Non lo fu per i disaccordi interni alla Dc e al Psi, per il fuoco di sbarramento di molti cattedratici e rettori (i cosiddetti «baroni»), per il disturbo che tale riforma causava agli intrecci fra docenza universitaria, professioni, ospedali, personale amministrativo. Il centrosinistra non fu in grado di rimuovere i blocchi che allignavano al suo interno. Il confronto con la Francia è impietoso: lì dopo il jolie mai, il maggio sessantottino degli studenti, il governo riuscì a introdurre una incisiva riforma universitaria. Da noi si rispose alla protesta nel modo più facile e irresponsabile: liberalizzando accessi e piani di studi, senza cambiare altro, e così condannando il nostro sistema di istruzione superiore (e a cascata tutta la scuola) a una lunghissima stagione di lassismo e degrado qualitativo.
Le dinamiche esterne giocarono un ruolo decisivo nella vertenza sulle pensioni, che esplose fra il 1968 e il 1969. Anche in questo settore, il centrosinistra aveva elaborato sin dai suoi esordi, tramite il Cnel, un ampio progetto di riforma. L’idea era di istituire un sistema simile a quelli scandinavi: una pensione di base (detta «sociale») di importo uguale per tutti, rafforzata da prestazioni integrative su base occupazionale. Nel 1965 fu varata una legge di «avviamento alla riforma», sostenuta da Cisl e Uil, ma osteggiata da Cgil e Pci. In seguito la previdenza divenne un terreno decisivo di competizione fra il Psi e il Pci, a sua volta esposto alla concorrenza – soprattutto nelle fabbriche – del Psiup (che si era staccato dal Psi nel 1964) e delle nuove formazioni extraparlamentari. Alla sinistra di opposizione la previdenza universalistica non piaceva. Le pensioni dovevano restare salario differito, parte di quella «variabile indipendente» (il salario, appunto) su cui calibrare tutte le altre grandezze economiche. L’opposizione del Pci e della Cgil si era fatta già sentire nel 1965, riuscendo a fare approvare la pensione di anzianità nel settore privato: una norma che costava 60 miliardi di lire all’anno.
Nel febbraio del 1968, poco prima delle elezioni politiche, il governo varò la sua riforma. Lo spirito originario di stampo universalistico fu però completamente snaturato dalle rivendicazioni «lavoriste» della sinistra comunista e della Cgil. Furono scartate sia la pensione di base sia la previdenza integrativa e venne invece adottato il metodo di calcolo retributivo per tutte le pensioni del pilastro pubblico. Nonostante ciò, il Pci, il Psiup e la Cgil insorsero contro «gli aumenti irrisori» e l’abolizione della pensione di anzianità, che il governo – giustamente – giudicava un’anomalia insostenibile. Si aprì così una «vertenza pensioni», che ruppe la lunga tregua sindacale e alimentò il conflitto industriale, anche all’interno delle fabbriche. Le elezioni del maggio 1968 furono un clamoroso insuccesso per il Partito socialista unificato, che con la fusione tra socialisti e socialdemocratici (1966) aveva lanciato una sfida all’egemonia del Pci. Quella sconfitta segnò la fine del centrosinistra. Il sistema politico italiano era entrato in una fase di acuta polarizzazione ideologica, dando avvio a quella centrifugazione partitica e «movimentista» (gli opposti estremismi) che sarebbe esplosa nel decennio successivo, diventando brodo di coltura per terrorismo e stragismo.
La vertenza pensioni si chiuse nel 1969. La riforma Brodolini (dal nome del ministro socialista che l’aveva negoziata con i sindacati) ripristinò la pensione di anzianità e migliorò la formula retributiva. Tutte le pensioni del pilastro pubblico avrebbero potuto raggiungere il 74 per cento dell’ultimo stipendio dopo 40 anni di contributi, quale che fosse l’importo di questi ultimi. Dal 1976 tale percentuale sarebbe poi salita all’80. La riforma introduceva anche la pensione sociale per gli ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito (l’unico residuo semi-universalista del progetto Cnel), l’adeguamento automatico al costo della vita, l’aumento dei minimi di pensione. Tutti uscirono soddisfatti dalla riforma. Com’è tristemente noto, fu però quel grande «accordo spartitorio» a spingere il nostro sistema previdenziale su una rotta finanziariamente insostenibile.
Sarebbe ingeneroso e scorretto disconoscere il ruolo che il Sessantotto e l’autunno caldo ebbero nel cambiare l’agenda politica del Paese e favorire un riequilibrio distributivo a favore dei lavoratori. La debolezza e gli istinti particolaristici della classe politica (e più in generale della classe dirigente), da un lato, e l’estremismo ideologico anticapitalista della sinistra comunista, dall’altro lato (cui si aggiungeva la persistente presenza di una destra dalle propensioni sovversive), non consentirono tuttavia di incanalare la protesta verso esiti riformisti di stampo europeo, ispirati al paradigma della cittadinanza democratica e inclusiva piuttosto che al cambiamento di sistema. Ci sono voluti decenni per rimettere istruzione e welfare (e non solo quelli) sui binari già tratteggiati dal primo centrosinistra. E per riparare danni sociali e finanziari che con un p0’ più di lungimiranza e responsabilità (come avvenne in altri Paesi anch’essi investiti dal vento della protesta) forse avrebbero potuto essere evitati.