La Lettura, 8 settembre 2019
La Guerra fredda non è finita
«Esse» aveva occhi celesti e una pinguedine aggravata da un eccesso di carboidrati. Amava la pasta, la cotoletta alla milanese e le patate fritte. Ufficialmente era accreditato come corrispondente della «Pravda», il quotidiano del Partito comunista sovietico, in realtà era un agente del Kgb. Non so quanti fossero a conoscenza del suo doppio lavoro, ma le modalità con cui fissava gli appuntamenti per scambiare riflessioni su politica e terrorismo non lasciavano dubbi. Edicole, parchi pubblici, panchine di minuscoli giardinetti di periferia («Ci vediamo lunedì a mezzogiorno; se non ci sono, saltiamo due lunedì, ma comunque sempre nello stesso posto»).
Si muoveva con grande circospezione, girandosi spesso a controllare di non avere code, di non essere seguito. Invece certamente lo era. Ma quando gli chiedevo provocatoriamente se fosse davvero una spia, sorrideva e negava, muovendo la testa come un orsacchiotto beccato con le zampe a rubare il miele da un’arnia.
Negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, il Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (Comitato per la sicurezza dello Stato), meglio conosciuto come Kgb, aveva disseminato i Paesi dell’Europa occidentale di finti giornalisti e diplomatici, reclutando persino insospettabili commercianti. A Roma, nel quartiere di San Giovanni, ce n’era uno che gestiva un negozio di elettrodomestici (lo racconta una scheda del dossier Mitrokhin, fonte della più devastante fuga di notizie subita dal servizio segreto sovietico).
Ma lo schema del doppio lavoro era più o meno lo stesso per tutti gli agenti, americani compresi. Non importa da quale Paese provenissero né il servizio di riferimento. Una fauna talvolta miserevole che rincorreva soprattutto status e denaro più che l’ideologia, condita da alcune eccellenze. Il cui paradigma era senz’altro rappresentato dal responsabile dello spionaggio all’estero della Stasi: il colonnello Markus Wolf. La spia più celebrata e potente del Novecento, che si dice abbia ispirato anche il personaggio di Karla nei romanzi di John le Carré. Capace di inguaiare l’allora cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt, ingaggiando il suo segretario personale, e talmente lungimirante da essersi portato nella tomba il segreto del presunto complotto che il 9 novembre 1989 provocò il crollo del Muro di Berlino e la fine del regime comunista nella Germania Est. Un autogol che avrebbe portato alla fine della Guerra fredda.
Avrebbe. Perché la Guerra fredda non è mai finita. E non solo per i sommergibili nucleari russi che solcano le profondità del Mare di Barents a caccia di segreti tra i cavi sottomarini che smistano informazioni tra gli Stati, come ha rivelato l’incidente con 14 morti dello scorso luglio.
La Guerra fredda ha solo cambiato pelle e nome. E strumenti. Certo, il cyberspionaggio su cui i servizi di tutto il pianeta hanno investito e continuano a investire miliardi ha elevato all’ennesima potenza la Techint (Technical Intelligence), che serve da grimaldello per scardinare casseforti virtuali e appropriarsi di segreti militari e industriali. Ma ha anche mostrato il suo limite quando l’ossessione tecnologica, su cui gli Stati Uniti avevano costruito il loro impenetrabile scudo di protezione e sicurezza, si rivelò inutile di fronte all’attacco più spaventoso a cui il mondo avesse mai assistito. Quello alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, giorno della peggiore disfatta dei servizi segreti americani, in cui fu drammaticamente evidente che la componente umana aveva abdicato al proprio ruolo consegnandosi a radar e centri d’ascolto planetari e così fallendo nel suo compito più banale: lo scambio di informazioni tra agenzie e agenti. I terroristi che dirottarono gli aerei erano quasi tutti conosciuti, schedati, persino controllati. Ma nessuno incrociò quelle notizie.
La stessa analisi si potrebbe applicare alle stragi dell’Isis in Europa. Dalla notte del Bataclan, 13 novembre 2015, gira una voce mai confermata secondo cui il massacro poteva essere fermato. La voce racconta che qualche giorno prima dell’attacco a Parigi Abdeslam Salah, uno tra i pochi jihadisti sopravvissuti dopo gli attentati, si sarebbe recato da Bruxelles ad Amsterdam insieme a un complice e la polizia olandese li avrebbe intercettati mentre incontravano un grosso narcotrafficante, anche lui collegato al mondo dell’islamismo fondamentalista. Gli olandesi li pedinarono e filmarono, ma non scoprirono nulla di penalmente rilevante. Tuttavia misero in allerta la polizia belga, che al loro rientro seguì le tracce dei due sospetti. Al punto da infilare un Gps nella macchina che Salah noleggiò per andare a Parigi carico di armi ed esplosivo, poche ore prima delle stragi. Peccato che al momento in cui lo stesso Salah attraversò il confine, i belgi non avvisarono i francesi, che ritrovarono quel Gps targato Belgio solo dopo la carneficina della discoteca e dello stadio. Fu una notte di fuoco quella, racconta la voce, anche tra il presidente francese François Hollande e il capo del governo belga Yves Leterme. Ma tutto sarebbe stato tenuto segreto per evitare una crisi tra i due Paesi dalle conseguenze imprevedibili.
Vero o falso, è nei fatti che un poco alla volta la Humint (Human Intelligence) abbia ritrovato il suo posto nel mondo dello spionaggio. E della nuova Guerra fredda. E che lo abbia ritrovato persino Berlino, in quanto capitale della Germania unificata e attenta osservatrice di tutto quanto si stia muovendo sullo scacchiere europeo. In un’analisi molto ben dettagliata e pubblicata qualche settimana fa dall’«Huffington Post», Lucia Annunziata lasciava intendere che il Russiagate che ha portato alla caduta del governo austriaco e la sua fotocopia messa in scena all’hotel Metropol di Mosca, che potrebbe inguaiare ancora più la Lega di Matteo Salvini in Italia, nasconderebbe la sapiente manina del Bundesnachrichtendienst (Servizio informazioni federale, Bnd), il servizio segreto tedesco tornato in pista dopo anni di riluttante attivismo fuori dai propri confini, per bloccare l’avanzata dei partiti sovranisti e dei loro leader troppo vicini al disegno egemonico del presidente russo Vladimir Putin.
Se fosse così, e tutti gli indizi sembrano convergenti, il Bnd avrebbe agito per proteggere un’altra sovranità, quella europea. E lo avrebbe fatto d’accordo con le intelligence americana, britannica e francese. Ma soprattutto mettendo in campo donne e uomini armati di microspie e microcamere. Proprio come si usava ai tempi della Berlino spaccata in due da quel Muro che aveva richiamato la più grande concentrazione di spie di ogni epoca. Il Circo al suo completo, per dirla con le Carré.
E che all’alba del XX secolo la Humint più che la Techint sia utile al disegno eversivo e terroristico sembra chiaro anche ai resti del Califfato sparsi tra Medio Oriente, Maghreb ed Europa. Per organizzare attentati, niente più contatti via web, ma incontri faccia a faccia in cellule di massimo tre o quattro elementi. Occhi, mani, soprattutto bocca. Me lo diceva convinto anche lo scrittore inglese Frederick Forsyth alla fine del secolo scorso, gustando una sogliola alla mugnaia in un ristorante dietro Marble Arch, a Londra: «La spia del Duemila avrà la carnagione olivastra, parlerà perfettamente l’arabo e avrà grandi orecchie». Più piccole ma molto più attente di quelle della National Security Agency (Nsa), che in quel tragico 11 settembre non furono capaci di captare un accidenti di quello che stava per accadere e avrebbe stordito l’allora presidente George Bush junior. Figlio di quel George Bush senior, che prima di arrivare alla Casa Bianca aveva diretto la Cia. Collega emerito di Putin, che al Cremlino arrivò su una limousine blindata direttamente dalla sede del Kgb alla Lubjanka. A proposito di uomini, più che di computer. E di realtà romanzesca, più che virtuale.