Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2019
Il senso della genomica
Il 26 giugno del 2000 il presidente Bill Clinton e il premier britannico Tony Blair tennero alla Casa Bianca una conferenza stampa insolita. Non si trattava di new labour o di special relationship, bensì di un annuncio scientifico: si era concluso con successo il progetto Genoma Umano, lanciato formalmente 10 anni prima, e per la prima volta si conosceva davvero l’intera sequenza del nostro DNA, cioè del nostro genoma. Il progetto costò complessivamente circa 3 miliardi di dollari (e per una strana combinazione sono circa 3 miliardi le basi allineate nel DNA umano), la maggior parte spesi da Stati Uniti e Gran Bretagna. Gli altri paesi che avevano ufficialmente collaborato erano Cina, Francia, Germania e Giappone; ma in verità era stata più ampia la partecipazione internazionale, compresa quella dell’Italia: dall’IIGB di Napoli Michele D’Urso e Daniela Toniolo furono i primi a contribuire sequenze della estremità del braccio lungo del cromosoma X.
Da decenni i genetisti – sulla base delle famose leggi scoperte da Gregorio Mendel – avevano elaborato metodiche per “mappare” i geni (cioè capire in quali ordine fossero disposti sui cromosomi), e lo avevano fatto con successo in molte specie, dai microbi, ai moscerini, al topo, alla specie umana. Ma le rispettive mappe erano rozze e approssimative, un po’ come le mappe geografiche del XVII secolo, quando di alcuni continenti si conoscevano solo le coste: con la sequenza completa, si raggiungeva ora la precisione di Google Maps.
Pertanto la sequenza del genoma non era un concetto nuovo: era il logico completamento di quanto la genetica aveva cercato di fare da Mendel in poi; al tempo stesso, non vi è dubbio che conoscere l’intero genoma apriva un panorama nuovo, per il quale Tom Roderick, uno scienziato del Jackson Laboratory nel Maine, aveva coniato nel 1986 il termine genomics. A me il Progetto Genoma diede motivo di ammettere umilmente che per anni avevo trasmesso agli studenti un dato erroneo: fino ad allora il numero stimato dei geni umani ’classici’ (cioè quelli che dettano la struttura di una proteina) era tra 50,000 e 100,000; invece, seconda la conta più recente, sono solamente 20,376.
Oggi, al posto di genetica, la parola genomica viene spesso usata come un sinonimo che suona più à la page; in effetti non vi sono discontinuità tra le due, e la differenza non è tanto nella sostanza, ma piuttosto nell’angolo di visuale. La genetica – che rimane viva e vegeta – è focalizzata in primis sulla struttura e la funzione di ogni singolo gene; la genomica guarda invece al genoma in toto, e vuole capire appieno come esso riesca a produrre un organismo funzionante. Che un gene sia regolato da altri geni, e che un certo carattere – un fenotipo – risulti dall’azione di più geni era già ben noto alla genetica; ora la genomica ci permette, in linea di principio e grazie a tecnologie avanzate, di individuare tutti i geni regolatori, e tutti i geni che contribuiscono a un certo carattere, che sia un carattere normale o una malattia.
La genomica si è ormai fatta valere in molti settori della biologia: bastino alcuni esempi. La genetica aveva già chiaramente dimostrato che i gruppi sanguigni umani sono gli stessi in tutto il mondo, ma le loro percentuali variano da una popolazione a un’altra; e il gruppo sanguigno Rhesus (Rh) si chiama così perché già esiste nella scimmia Macacus Rhesus.
Ora, guardando al genoma intero, se confrontiamo il DNA umano con quello di un primate nostro parente stretto, lo scimpanzè, l’uguaglianza è il 99%; per contro, tra persone umane di qualunque popolazione – che siano ad esempio due Italiani, o un Italiano e un Tanzaniano – la sequenza del DNA è uguale per il 99.9% (differisce cioè solo per 0.1%). La genomica si è dimostrata uno strumento formidabile nell’aiutarci a capire la storia della specie umana: ad esempio, ci ha detto altamente probabile che il genoma di Homo sapiens abbia ricevuto un contributo, sia pure piccolo, dai cugini Neanderthal. Al di fuori della paleo-antropologia, la genomica si è dimostrata preziosa in casi innumerevoli: ad esempio a decifrare la genealogia delle razze dei cani e i rapporti con l’antenato lupo; o le innumerevoli varietà di uve da vino ed i rapporti con la vite silvestre da cui tutte derivano: all’interno di questa analisi, è la genetica a dirci che le mutazioni di due soli geni danno l’uva bianca.
Un’altra macro-applicazione delle genomica è nel campo dei tumori. Era ormai chiaro che ogni tumore ha origine da mutazioni acquisite (cioè non ereditarie) di particolari geni: ma in molti casi non è facile individuare quali. Nel 2005 è stato lanciato The Genome Cancer Atlas (TGCA: le iniziali sono un acronimo studiato ad arte, poiché indicano le famose 4 basi del DNA), che ha già identificato migliaia di mutazioni in 1200 geni di centinaia di tumori. Questo approccio promette di trovare bersagli per terapie mirate: un risultato già conseguito in alcuni casi.
Infine, la genomica sta affrontando una sfida nuova. I geni classici costituiscono solo una piccola parte (meno del 2%) del DNA umano. Il rimanente comprende regioni che regolano i geni classici, altre che mantengono la struttura dei cromosomi, sequenze virali incorporate nel genoma, e molte di significato ancora sconosciuto (sono state paragonate metaforicamente alla materia oscura nel cosmo): si dovrà discernere che cosa ha una funzione e che cosa è meramente vestigiale. Per farlo occorreranno ancora sequenze genomiche, ed analisi bio-informatica dei mega-megadati raccolti.
La tecnologia necessaria è oggi assai più avanzata di vent’anni fa, e i suoi costi sono una questione di grande importanza. Jim Watson e Renato Dulbecco, due premi Nobel, furono tra i promotori più autorevoli del Progetto Genoma Umano, che nel 2001 donò a Watson un dischetto con la sequenza completa del suo DNA, costato un milione di dollari. Chiunque legga questo articolo, può invece oggi ottenere da un laboratorio di bio-tecnologia, per circa 1000 dollari, la sequenza del suo proprio DNA, corredata da stime probabilistiche delle malattie che potrebbe avere nel presente o nel futuro. Dal punto di vista business, un progresso impressionante; dal punto di vista medico per ora non lo consiglio a nessuno, perché in quella sequenza non figurano fattori ambientali di gran peso, e tantomeno il ruolo indomabile del caso.