Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2019
Napoleone e la spia: doppio gioco a Marengo
L’uniforme, una giacca blu a coda di rondine e i bottoni dorati, era piuttosto logora. Qualcuno, più attento, giura anche che ci si potevano vedere i piccoli buchi fatti dalle tarme. Nonostante tutto, quel 6 maggio del 1805, tornando sul campo di battaglia di Marengo, dove lo aspettavano trentamila soldati pronti a salutare il loro generale che di lì a qualche giorno sarebbe stato incoronato, a Milano, re d’Italia, Napoleone aveva scelto di indossarla. E non aveva mancato di aggiungervi una feluca scolorita dal tempo, anzi dal cattivo tempo dei giorni in cui, per arrivare in quella afosa pianura, aveva dovuto attraversare le Alpi coperte ancora di neve. Non era solo nostalgia. La guerra con le grandi monarchie europee era ormai imminente e bisognava ravvivare lo spirito guerresco di una Francia che stava prendendo troppo sul serio quella espressione fortunata “il più civile dei militari” con la quale essa aveva salutato la sua ascesa al potere. I cinque anni trascorsi dai giorni di Marengo sono, del resto, anche quelli che gli storici considerano i più positivi della effimera epopea napoleonica. Sono gli anni del “Grande Consolato”, nel quale si rincorrono la istituzione della Banca di Francia e l’organizzazione dei prefetti, il superbo Codice civile e la pace religiosa finalmente raggiunta con il Concordato. Anni senza guerre e dunque anche senza vittorie, e di queste ultime Napoleone ha urgente bisogno, ora che la guerra sta per ricominciare, ora che, forse, egli assapora già il gusto di un altro piccolo villaggio che egli renderà celebre, non Italia, stavolta, ma in Moravia, e che si chiama Austerlitz.
Vale la pena, dunque, per rianimare simboli di una gloria militare appannatasi nei giorni di una saggia amministrazione, indossare quella giacca troppo calda e la feluca un po’ troppo pesante sulla testa. A Marengo, d’altronde, cinque anni prima pioveva e c’era il freddo di un’estate che stentava ad arrivare, non come ora che una bella primavera accoglie i ventidue battaglioni di fanteria e i quattro reggimenti di cavalleria venuti a rendergli omaggio. Pioveva come pioverà a Waterloo, battaglia che sarebbe facile immaginare come una medaglia rovesciata di Marengo: una vittoria sicura fino alle quattro del pomeriggio e che poi si trasforma nella più dolente delle sconfitte. Marengo era stata, invece, e così tutti la ricordavano quel giorno di maggio, una battaglia persa fino alle due del pomeriggio e vinta inaspettatamente prima di sera.
Carponi sulla carta d’Italia disegnata dal capitano Jean-Baptiste Hyppolite Chauchard, fissando spilli variamente colorati in corrispondenza di strade, villaggi, presumibili concentramenti di truppe nemiche, si racconta che Napoleone abbia così pianificato, nel marzo del 1800, la campagna militare che avrebbe dovuto portarlo a incontrare l’esercito austriaco in un luogo che egli quel giorno indicò con precisione sulla vasta mappa: San Giuliano, nella pianura di Alessandria, vicino ad un paesino chiamato Marengo. Cardine di questa strategia era il disegno di superare le Alpi attraverso il valico del San Bernardo, in un’epoca dell’anno in cui nessuno si sarebbe provato a far passare un esercito da quella parte, quando i soldati sarebbero stati costretti a salire con gran pena lungo sentieri a strapiombo ancora innevati e i cannoni, trascinati sui loro fusti, avrebbero rischiato ad ogni momento di precipitare nei dirupi. Impresa leggendaria, che prima di allora era stata tentata solo da Annibale, il cui nome fa capolino in basso a sinistra tra le rocce, nel celebre quadro di David, a significare quale eredità avesse raccolto allora il trentenne generale Bonaparte, il passaggio delle Alpi sorprese in effetti i comandi austriaci, ma non ebbe, tuttavia, quell’effetto immediato sull’esito della campagna che si è soliti immaginare.
Al contrario, utilizzando in prevalenza, e in maniera attenta e originale, fonti di parte austriaca, questo nuovo libro su Marengo mostra la robustezza della strategia elaborata dagli alti comandi asburgici, soprattutto dal capo di Stato maggiore Anton von Zach, per contrastare le truppe francesi, evitando consapevolmente di affrontarle all’altezza dell’imbocco dei valichi alpini e aspettandole in pianura, con una determinazione non inferiore a quella che la leggenda attribuisce al Napoleone che gattona sulla mappa di Chauchard. A questa robustezza contribuisce molto l’efficacia di un sistema di spionaggio ricostruito assai bene in queste pagine, dalle quali esce come personaggio memorabile la figura del torinese Carlo Gioelli. Lettore di Plutarco, acceso, quindi, da idee repubblicane in anni in cui il Piemonte oscilla tra entusiasmi rivoluzionari e reazione assolutista, questo giovane avvocato si destreggia con grande abilità tra vecchi e nuovi padroni, servendo contemporaneamente i servizi segreti francesi e quelli asburgici. Maestro, come molti altri con lui, del doppio gioco, diventa l’arbitro di un giro incessante di informazioni tra le due parti, nelle quali non è sempre facile raccapezzarsi quale sia e a chi venga offerta volta a volta la verità delle notizie. Neppure quando Napoleone lo incontra a Milano, quasi alla vigilia della battaglia di Marengo, durante un colloquio assai ben raccontato nel libro, sappiamo esattamente se egli stia tradendo Zach per Napoleone, oppure Napoleone per Zach, oppure distribuisca con sapienza ad entrambi informazioni che, alla fine, li rimetteranno su un piede di parità, rimanendo egli nume imparziale di un duello la cui sorte, dopo un giro vorticoso, è tornata nelle mani dei due contendenti.
Napoleone, del resto, non si fida del tutto di Gioelli e i soldati austriaci che si avviano allegri al combattimento sembrano credere piuttosto alla “cavalleria numerosa e alla artiglieria formidabile” che li accompagna, che alle trame spionistiche di Gioelli e dei suoi compagni. E infatti, la battaglia alla due del pomeriggio è praticamente vinta. Il villaggio di Marengo, chiave dello scontro, è stato conquistato dalle truppe asburgiche e Napoleone è costretto a inviare in gran fretta a un suo generale questo messaggio : «Tornate, in nome di Dio, se potete». Farà la stessa cosa quindici anni più tardi, a Waterloo, quando, di fronte allo sparpagliamento dei suoi reggimenti che ne ha indebolito la forza d’urto, cerca disperatamente di riportare sul campo di battaglia una parte delle truppe. A raccogliere il messaggio stavolta non è però il cocciuto maresciallo Grouchy, che si ostina a rincorrere prussiani mentre nella piana di Waterloo si consuma una disfatta fatale. A Marengo c’è il giovane generale Desaix, un uomo “antico”, come dirà di lui Napoleone paragonandolo agli amatissimi eroi di Plutarco. Desaix abbandona la posizione che gli era stata inizialmente affidata e torna indietro, sconvolgendo un esercito che, nonostante le esortazioni di un tenace ufficiale di nome Radetzski, si rilassa per la vittoria ormai certa, regalando a Napoleone quell’Italia che lo incorona re cinque anni dopo, e alla storia una di quelle frasi che si vorrebbero vere: «Sono appena le due del pomeriggio. Abbiamo perso una battaglia, c’è il tempo di vincerne un’altra».