la Repubblica, 8 settembre 2019
La crisi della cravatta
L’ultima ridotta è il Quirinale, dove neppure le delegazioni (maschili) dei movimenti anti-sistema hanno l’ardire di presentarsi senza la cravatta d’ordinanza. In Parlamento, l’obbligo è già caduto alla Camera dei deputati, dove basta una giacca per varcare la soglia del palazzo di Montecitorio, ma resiste – per ora senza deroghe – al Senato, e non soltanto per i parlamentari ma anche per giornalisti, lobbisti e visitatori. Alla Scala, e non parliamo dei teatri di prosa, è ormai quasi una rarità, forse con l’eccezione della Prima del 7 dicembre. Nel quadrilatero della City milanese, all’ora di pranzo, quando fino a qualche anno fa decine di migliaia di banchieri, dirigenti, broker, funzionari e semplici impiegati confluivano azzimati verso i ristoranti, oggi le camicie sono in netta prevalenza aperte sul collo, le giacche assai meno strutturate e molti pantaloni restano appesi a (troppi) centimetri di distanza dalle scarpe. Perfino il dress code dei grandi istituti di credito e delle banche d’affari, i templi della finanza fino a qualche anno fa frequentati esclusivamente da gessati e grisaglie, ha cancellato l’obbligo della cravatta.
Segno dei tempi che cambiano, in fretta. Maurizio Marinella è il re delle cravatte, italiano e non solo. I Kennedy, Barack Obama, Gianni Agnelli, Giulio Andreotti e praticamente tutti i Presidenti della Repubblica italiani, da De Nicola a Napolitano (con Francesco Cossiga grande sponsor del marchio napoletano) hanno annodato al collo le cravatte confezionate nel laboratorio di via Riviera di Chiaia. Lui, più che la crisi della cravatta vede «una crisi generale del modo di vestire, gli uomini hanno meno voglia di scegliere l’accessorio, la camicia, il fazzoletto da taschino… Mio nonno diceva: puoi mettere anche lo stesso vestito grigio tutti i giorni della settimana, ma se cambi camicia e cravatta il vestito sembrerà diverso. Oggi purtroppo non è più così, ma la crisi è in tutto il mondo: perfino Barneys New York sta per dichiarare bancarotta». Marinella, per la verità, il declino lo osserva da lontano, conun certo distacco: la sua aziendina, una settantina di dipendenti, lo scorso anno ha messo a segno «un incremento del fatturato in doppia cifra. Abbiamo una richiesta doppia, se non tripla rispetto alle 160 cravatte che siamo in grado di confezionare ogni giorno».
Ma quella del marchio napoletano e di pochi altri laboratori artigianali, la cui qualità è riconosciuta in tutto il mondo, è un’eccezione in un quadro generale tendente al grigio scuro, da parecchi anni a questa parte. Il mercato italiano delle cravatte, che nel 2013 valeva 275 milioni, quest’anno scenderà con ogni probabilità sotto la soglia dei 200. Gli ultimi due anni, il 2017 e 2018, sono stati poco meno che drammatici: meno 9,5% e meno 6,6, percentuali che amplificano le flessioni già registrate negli anni precedenti. Calano le vendite in Italia (meno 6,3% nel 2017, meno 1,7% lo scorso anno) ma calano soprattutto le esportazioni (meno 10,2 e meno 8%). Tutti i mercati importanti, gli Stati Uniti, il Giappone, la Germani a e il Regno Unito, evidenziano smottamenti importanti.
Il 2019 non sembra meglio orientato: da gennaio a maggio l’export ha proseguito nel suo trend riflessivo, cedendo oltre cinque punti percentuali. Nei primi quattro mesi dell’anno, in Italia, il sell-out di cravatte perde il 3,7%, secondo i dati rilevati da Sita Ricerca. E sulla base dell’indagine campionaria di Confindustria Moda e Confindustria Como, le aziende del settore tessuto per cravatteria nel primo trimestre hanno perso il 3,5% in valore (lo stampato contiene la flessione ma il tinto in filo registra una caduta del 5% abbondante) ma oltre l’11% in volume.
Soffrono tutti i distretti del tessile, da quello comasco della seta al polo pugliese di Tricase e Casarano. «Dobbiamo tornare a valorizzare il nostro patrimonio genetico – è l’appello di Maurizio Marinella – il nostro Dna artigianale, l’orgoglio di essere italiani. Anche se lavorare in Italia oggi, con tutte queste difficoltà e un prelievo fiscale abnorme è davvero difficile. Ma io voglio andare avanti».
Nel suo laboratorio storico, che nel 2019 compie 105 anni di vita, già si affaccia la quarta generazione: dopo il fondatore Eugenio e Luigi, il padre di Maurizio, è già al lavoro il figlio Alessandro, che ha 24 anni.