Corriere della Sera, 8 settembre 2019
Addio a Annalisa Cima, l’ultima Musa di Montale
Annalisa Cima era nata a Milano nel 1941 da una famiglia lecchese di industriali fondatori, in zona Castello, di famose cartiere eponime. Viveva in Svizzera con il marito Friedrich da molti anni, in seguito a una tubercolosi che le suggerì di lasciare la metropoli per stabilirsi a Castagnola, nella collina che si affaccia sul Lago Ceresio. Nella sua casa di Lugano è morta giovedì scorso. Una sua scheda biografica, scritta a suo tempo dall’amico editore Vanni Scheiwiller, racconta nel dettaglio la genealogia, il rapporto privilegiato con il nonno paterno Francesco, antifascista gobettiano, nonché gran cacciatore e giocatore di poker. Con lui Annalisa sarebbe cresciuta dopo la separazione dei genitori Giovanni Battista e Ileana Anna, figlia unica di Alice Schlesinger, ebrea viennese rifugiata in Svizzera durante la guerra.
Anna Elisa (così all’anagrafe) aveva seguito studi di arte, musica (il pianoforte), filosofia, che dovette interrompere a sedici anni a causa della malattia, per poi riprenderli conseguendo una laurea in Ingegneria cartaria e in Filosofia (è sempre la scheda di Scheiwiller a parlare). Vittime entrambe le famiglie, paterna e materna, di gravi collassi finanziari, Annalisa Cima si dedicò ben presto alla pittura oltre che alla poesia. La prima esposizione è del 1964 a Locarno, mentori illustri Max Bill e l’architetto Alberto Sartoris; seguono altre mostre a Losanna, a Venezia e in giro per il mondo (Brasile e Giappone, dove conosce Akira Kurosawa). Donna dal grande fascino e di straordinaria bellezza nordica, Annalisa Cima ha modi eleganti, personalità ammaliante, curiosità intellettuale e facilità di relazioni, e negli anni tra i 60 e i 70 avvicina i grandi della critica e della letteratura, da Roman Jakobson a Meyer Shapiro, da Marianne Moore a Ezra Pound, da Ungaretti a Palazzeschi. Frequenta Pasolini, Visconti, Lattuada, conosce Contini e Feltrinelli, oltre ad avere amici nell’avanguardia del Gruppo 63.
Scheiwiller comincia a ospitarla nelle sue preziose plaquette colorate All’insegna del Pesce d’Oro. Ne verranno fuori raccolte poetiche come Terzo modo (1969), La genesi e altre poesie (1971), Immobilità (1974), con brevi testi accompagnati da disegni a matita dalle forme semplici, e prefazione di Cesare Segre. Nel 1968 in via Bigli a Milano l’incontro con Montale, non ancora premio Nobel: sarà un’amicizia destinata a far molto discutere a partire dal 1986, quando Annalisa Cima all’Hotel Splendid di Lugano rivela che il vecchio poeta le ha lasciato 84 liriche inedite, scritte tra il 1969 e il ’79 e a lei dedicate, con la raccomandazione di pubblicarle in 12 plaquette dopo la sua morte. Il tutto sotto la sigla della Fondazione Schlesinger, nata nel 1978 sotto l’egida dello stesso Montale e con un comitato scientifico presieduto ad honorem da Rita Levi Montalcini. I dubbi sull’affidabilità dell’«ultima Musa» del poeta, soprattutto da quando nel 1996 esce presso Mondadori il cosiddetto Diario postumo che raccoglie tutti i componimenti, nascono dal fatto non secondario che i manoscritti di quei testi rimangono inaccessibili.
La polemica esplode nel luglio 1997 sulle colonne del «Corriere» grazie a un intervento del grande filologo Dante Isella che denuncia con molte prove il mediocre falso (i suoi scritti sul Diario sono raccolti nel volumetto Dovuto a Montale). Discussioni infuocate ne seguono, finché con l’intenzione di diradare le fitte nebbie la Musa chiama a raccolta il 24 ottobre, ancora allo Splendid, amici e filologi per un seminario e una mostra in cui promette di esibire gli autografi. In realtà i dubbiosi hanno buone ragioni per rimanere ancora più dubbiosi: le carte restano pressoché inaccessibili, sorvegliate da guardie «gallonate» e tenute debitamente sottovetro a distanza. Scrive Maria Antonietta Grignani, ricordando quella assurda serata: «Avevano una vaga parvenza della grafia di Montale, ma di lui ben più giovane e per giunta c’era da dubitare fossero opera di una sola mano».
Sulla spinosa questione si erano formati due netti schieramenti: da una parte gli «autenticisti» (tra questi anche studiosi autorevolissimi come Rosanna Bettarini e Maria Corti), dall’altra i decisamente scettici (tra questi, sin dalla prima ora, Giorgio Orelli e Giovanni Raboni, cui si sarebbe aggiunto Mengaldo). In mezzo, alcuni scettici e «possibilisti», tra cui il poeta Zanzotto, che ritenevano quei versi frutto di una collaborazione «scherzosa» tra il vecchio poeta e la giovane ispiratrice. A detta di Gina Tiossi, la fedelissima governante di Montale, «la signora» andava a trovare il poeta, sia a Milano sia d’estate in Versilia, sempre dotata di registratore. Non se ne parlò per almeno un decennio, del Diario postumo (che intanto circolava in libreria con il nome di Montale), fino a quando, nel 2014, il dibattito fu riacceso da nuove ricerche filologiche (di Federico Condello, Alberto Casadei, Paola Italia e altri) che confermavano la tesi di Isella: si tratta di un «falso in toto o in gran parte, frutto di collage o di registrazioni audio». Annalisa Cima ha assistito pressoché in silenzio al ritorno di fiamma dell’affaire attributivo. Qualche intervento occasionale qua e là, mai convincente. Soprattutto, le carte sono rimaste sepolte nell’invisibilità. E da domani chissà che cosa ne sarà.