Corriere della Sera, 8 settembre 2019
Il maratoneta dell’Himalaya
Gliene mancano tre, e ha poco più di un mese davanti. Tre ottomila da scalare entro il 23 ottobre. Sembrerebbe un’impresa impossibile, se non si tenesse conto che negli ultimi cinque mesi ne ha conquistati undici. Nirmal Purja detto Nims, 36 anni, nepalese, è uno che va (sale) di fretta. Un super maratoneta d’altissima quota. Dice che la sua unica paura sono le valanghe, e giura di non volere «sfidare Madre Natura». Di certo sta sfidando se stesso. Ha la schiena piena di tatuaggi, uno per ogni cima conquistata. Ha cominciato a guardare le montagne tardi nella vita: Nepal per noi è sinonimo di Himalaya, ma Nims è cresciuto nella parte sud del Paese, nella giungla delle tigri più che sui sentieri degli sherpa: portatori, guide, sempre e comunque un po’ gregari. Nims invece è un protagonista assoluto, anche se alpinista per caso. Di professione soldato, come il padre e il nonno: è un Gurkha, popolazione da cui l’esercito britannico ha reclutato in passato le sue famose truppe scelte. Anche in divisa, questo giovane cresciuto a Chitwan ha voluto distinguersi, entrando nelle forze speciali nepalesi e scegliendo le unità anfibie. Insomma il mare più che la montagna. E invece incredibilmente eccolo lassù, in questo weekend di metà settembre, a tentare l’assalto alle ultime tre vette che gli mancano per completare il Progetto Possibile. Su e giù dai 14 tetti del mondo in 7 mesi. Nessuno finora ha impiegato meno di 7 anni, 11 mesi e 14 giorni. Il primo a salirli tutti fu il nostro Reinhold Messner, che completò l’impresa nel 1986. Una quarantina di alpinisti l’hanno seguito. Le spedizioni lunghe mesi sono diventate ascensioni più brevi, senza ossigeno, in stile alpino. Ma nessuno finora aveva conosciuto lo «stile Nims».
Molti amanti della montagna storcono il naso. L’ultra-maratoneta non sceglie nuove vie, ha un approccio totalmente atletico. Nel 2012 quando cercò di salire l’Everest con un amico si fece trasportare in elicottero al campo base e la guida gli spiegò sull’erba l’uso dei ramponi. Quella volta gli andò male, ma gli lasciò la voglia. Nel 2016, appena rientrato da una missione in Afghanistan con la forza internazionale, ci ha riprovato. Il prestito bancario per la nuova macchina fu investito nell’operazione Everest. Dopo cinque giorni si è sentito male, edema polmonare, è dovuto scendere di quota, è tornato su. Ha conquistato la montagna più alta del mondo, salvato una donna sfinita al Colle Sud. E dopo 4 giorni era di nuovo soldato in Afghanistan. Questo è Nims. Un fenomeno di acclimatazione ad alta quota.
Rebecca Stephens, la prima britannica a conquistare l’Everest, ha passato un pomeriggio con lui e l’ha raccontato sul Financial Times. Nims è partito con pochi sponsor, ipotecando la sua casa inglese per 60 mila euro. La prima tacca è stata l’Annapurna, 23 aprile, lungo la Via degli Olandesi. In quell’occasione si offre volontario e appeso a una corda da un elicottero porta in salvo un alpinista bloccato sotto la vetta. Si fa un nome, e comincia a raccogliere sostenitori. Nel primo mese scala Dhaulagiri, Kangchenjunga, Everest, Lhotse e Makalu. A luglio, in appena 23 giorni, si beve K2, Namga Parbat, Broad Peak, i due Gasherbrum. Soltanto sul K2 ammette di avere avuto paura. In quel caso se l’è presa (quasi) comoda, fermandosi a riposare ai campi 2 e 4. In 4 casi ha fatto una tirata unica dal campo base alla vetta (e ritorno). Una macchina da salita. Con un cuore pronto a rinunciare all’impresa. Ad agosto mentre aspetta che passino i monsoni, Nims vola al capezzale della madre a Kathmandu. Reparto cure intensive. È grave. Nims non pensa alla missione. Sembra rinunciare. Ma l’intervento chirurgico va bene, la mamma è fuori pericolo e il figlio può riprendere la corsa.
Oltre alle valanghe, teme la politica. Gli mancano Manaslu, Cho Oyu e Shishapangma. Per quest’ultima cima, il governo cinese ha chiuso la stagione delle ascensioni. Il Nepal sta chiedendo a Pechino un permesso per il suo alpinista per caso. Fatelo passare, ha fretta.