Corriere della Sera, 8 settembre 2019
Perché la Ue è necessaria
Vanno in soffitta le idee antieuropeiste. L’Italia non batterà i pugni sul tavolo a Bruxelles: passa rapidamente da Paese anti-Europa a Paese europeista. Il segno è dato dai primi atti: lo scambio con Bruxelles, di Roberto Gualtieri che lascia la presidenza della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo per diventare ministro dell’Economia e delle finanze.
Dall’altra parte Paolo Gentiloni, già ministro delle Comunicazioni e degli Esteri, nonché presidente del Consiglio dei ministri in Italia, viene designato quale commissario europeo, dove, per le sue passate esperienze, potrebbe aspirare a un portafoglio importante.
Questo cambiamento radicale non serve solo a cercare di portare lo spread sotto quota 100 e a negoziare con successo il livello del deficit (il governo deve inviare alla Commissione europea entro il 15 ottobre il documento programmatico di bilancio 2020). È anche un atto dovuto alla nostra storia, alla nostra Costituzione, ai nostri interessi, ed è necessario per la buona salute del nostro sistema politico.
L’aspirazione europea dell’Italia è antica, e si è rinnovata negli anni 40 del secolo scorso. Pochi giorni prima di morire, il 19 agosto del 1954, Alcide De Gasperi scriveva a Fanfani di avere una spina, di temere per le difficoltà di avviare la costruzione europea. Il Trattato della Comunità fu firmato a Roma nel 1957. Il patto fu rinnovato e arricchito a Maastricht nel 1992 e a Lisbona nel 2007.
Con una delle poche modifiche della Costituzione, vi fu introdotto, nel 2001, il principio secondo cui le leggi del Parlamento non debbono rispettare solo la Costituzione ma anche i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Quindi, l’antieuropeismo viola un mandato costituzionale.
La soluzione di quasi tutti i nostri problemi passa attraverso l’Unione. Persino Salvini, quando impediva lo sbarco di immigrati, spiegava il suo diniego con la necessità che l’Unione europea si occupasse della loro distribuzione tra i Paesi europei. Il suo sovranismo passava, dunque, non per meno, ma per più Europa.
Giuseppe Mazzini si batteva perché l’Italia divenisse una nazione, spiegando che, altrimenti, i sette Staterelli sarebbero rimasti inascoltati nel «concerto delle nazioni» e che avrebbero potuto contare solo se uniti. Il problema si ripresenta oggi in un mondo che è divenuto più vasto e dominato da potenze come gli Stati Uniti, la Cina, l’India. Si è aggiunto, nel secolo passato, quello che un grande europeista ha chiamato l’«orrore delle ecatombi» (ricordiamolo sempre: i due conflitti mondiali della prima parte del secolo hanno provocato morti e distruzioni, facendo sparire nella sola Europa un numero di persone pari alla popolazione italiana attuale).
C’è un’altra ragione per cui l’Italia ha il dovere di restare nell’Unione e cercare di rafforzarla: il timore del cesarismo, un motivo sotterraneo, sempre presente nella nostra storia, da Francesco Crispi, a Mussolini, all’Italia repubblicana. Questo timore è una forza potente, sempre presente, spesso rinverdita (Salvini vi ha contribuito non poco, parlando di pieni poteri e invocando rivolte popolari contro i giudici e il Parlamento). Napoleone I e Napoleone III avevano già il controllo del governo quando assunsero pieni poteri e indissero plebisciti. L’Unione europea è la forza che può contrastare l’affermazione di poteri autoritari all’interno di una nazione.
L’europeismo è, infine, un atto dovuto non solo perché l’Italia fa parte della civiltà europea, dal punto di vista culturale, economico, sociale, ma anche perché ormai più di metà del nostro ordinamento, delle nostre leggi, degli organi pubblici, è disegnata secondo modelli che abbiamo costruito insieme con gli altri Stati europei, per cui allontanarsene è impossibile, come dimostra l’infelice idea britannica della secessione, che ha finora solo provocato il caos in quello che una volta era il più ammirato sistema politico del mondo.
In conclusione, la partecipazione dell’Italia all’Unione è un atto dovuto, necessario non solo per le nostre convenienze di breve periodo. La retorica nazionalistica e separatista serve solo a marginalizzarci. Al contrario, la collaborazione stabile e leale con gli altri Paesi europei serve a noi e a loro, ed è utile anche a riempire quel «vuoto di egemonia» che un minore impegno delle classi dirigenti e le contestazioni strumentali hanno prodotto. Ben venga allora una «nuova intesa» con l’Europa.