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 2019  settembre 07 Sabato calendario

Intervista allo scrittore Mahir Guven

La Francia raccontata dal sedile di un Uber. È questo Fratello grande, il romanzo di Mahir Guven, che nel 2017 si assicurò il prestigioso premio Goncourt per un’opera prima: un monologo alternato tra due fratelli della banlieue parigina, il più grande, che è un autista di Uber, e il più piccolo, infermiere, che d’un tratto parte per la Siria, a fare la sua jihad. e che a Parigi, sfuggente come sempre, ritornerà e non è ben chiaro per quale ragione. 
Eccolo Mahir, 33 anni. È stato giovane manager alla rivista francese «le 1». Un giorno ha preso un Uber e gli è venuta l’ispirazione.
Che è successo?
«Erano due anni che volevo scrivere un romanzo: cercavo lo spunto giusto. Ho guardato quel giovane autista e mi sono detto: ecco, ho il personaggio, una storia. Come me, anche lui era figlio di immigrati. Io a dire il vero sono nato in un quartiere popolare di Nantes e non in una cité della banlieue di Parigi, i complessi di alloggi sociali. Però, la conosco bene. Ho tanti amici che vengono da lì, ci vado a giocare a pallone, l’ho frequentata. E la volevo raccontare. Poi c’era altro».
Cosa?
«Una rabbia fredda, sorda dentro di me. Perché sulla periferia in Francia si fanno discorsi pieni di pregiudizi e falsità. Nei due sensi: quei giovani diventano dei santi, che vanno aiutati. Oppure dei cattivi, nullità, espressioni di culture inferiori. Io ho voluto raccontare una piccola storia di famiglia, anche se ci sono gli attentati di mezzo. Poi, quando sono salito su quell’Uber, avevo visto da poco la mostra che si è tenuta a Parigi su Martin Scorsese. Mi ero soffermato su come avesse preparato Taxi driver assieme allo sceneggiatore Paul Schrader. Il protagonista era un reduce del Vietnam».
Ci presenti i due personaggi del suo romanzo.
«Hanno due anni di differenza, il più grande è già sulla trentina. Vivono a Bobigny, nella periferia nord-est di Parigi. Fratello grande è il primogenito, sul quale si fanno sempre gravare tante responsabilità e che subisce gli errori educativi dei genitori. Qualcosa si è rotto in lui, innanzitutto perché la madre, originaria della Bretagna, è morta all’improvviso, quando era ancora piccolo. Resta con il padre, un tassista, che viene dalla Siria. Fratello grande voleva fare il calciatore professionista, ma si rompe una gamba. Inizia a fumare canne: come tutti i giovani che non studiano, combina stupidaggini. Ma è anche un giovane "resiliente", che usa la testa e ne vuole uscire. Per quello diventerà autista di Uber». 
E il fratello minore?
«È simile all’altro, perché è sveglio come lui, ma la differenza è che Fratello piccolo è cosciente della sua intelligenza. Ha fatto degli studi, analizza bene il mondo, non è istintivo come l’altro. Diventato infermiere, è molto bravo, lavora in una sala operatoria. Ma a posteriori capisce che, se fosse nato in un altro tipo di quartiere, sarebbe diventato medico».
Chi il cattivo, chi il buono?
«L’individualista alla fine appare agli occhi dei lettori quello buono, disponibile, generoso: diventa una sorta di eroe ordinario. Mentre l’altro è assai egoista. Vuole salvare il mondo e il prossimo, ma, ad esempio, compie diversi errori professionali. In Siria si prende per un medico, ma non lo è».
Anche il loro padre, proprio di origini siriane, ha un ruolo importante nel libro, è vero?
«Lui sa bene dove si trova, perché sa da dove viene. La Francia ha dei difetti, ma li accetta. Riesce a giudicarla con onestà. Gli accade quello che avviene spesso a un padre: dai un nome a un figlio, immagini un destino per lui, ti fai una storia nella tua testa. Ma la realtà riprende il sopravvento».
Nel libro lei critica l’uberizzazione della società contemporanea, sempre con un certo humor…
«Non l’ho scritto in maniera esplicita, perché non volevo fare il gioco del populismo. Ma i politici si sono fatti beffare da Uber. In un Paese con due milioni e 400mila disoccupati, sembrava che quelle vetture potessero risolvere tutti i problemi sociali delle periferie. Hanno strappato agevolazioni fiscali alle autorità, ma hanno creato solo qualche migliaia di posti di lavoro, per giunta precari».
Chi sono i giovani francesi che come Fratello piccolo sono partiti in Siria a lottare con l’Isis? 
«Per costruire quel personaggio, mi sono ispirato a un’intervista rilasciata da Régis Debray, che andò a combattere in Bolivia con Che Guevara. Diceva, appunto, che oggi, se fosse stato giovane, per idealismo sarebbe partito alla volta dello Stato islamico. Avrebbe rifatto il mondo così. Perché da giovani si fanno anche cretinate del genere, che possono costare caro».
La lingua è un’altra protagonista del libro: cruda, diretta. Con le parole straniere in uso nella banlieue…
«Alle origini è il linguaggio delle classi popolari, da cui provengo. Quel modo di parlare è nato nelle cités delle periferie. Anche se restano dei regionalismi (a Marsiglia, ad esempio, termini di origini provenzali si mescolano a quelli arabi), questa lingua si è uniformata a livello nazionale negli anni Ottanta, con l’arrivo del rap. E, quando alcuni rapper sono diventati delle star per tutti, guadagnando una sorta di rispettabilità, questa lingua si è estesa al ceto medio. Oggi la parlano pure i giovani della borghesia. È interessante: sono le classi popolari che reinventano il linguaggio, perché subiscono meno la pressione sociale».
Lei quella lingua l’ha fatta diventare letteratura…
«Ci ho provato. Non è facile, non basta inserire parole straniere. Tra l’altro, dato che i miei personaggi vengono da Bobigny, mi sono concentrato su come parlano da quelle parti. Vi è un’influente comunità gitana, che tiene le redini anche di un certo malaffare. E che ha pervaso il linguaggio della zona».
È difficile da tradurre?
«Sono stato in contatto con tutti i traduttori, anche quello italiano. Ci sono due possibilità. Si può mantenere lo slang francese e si spiegano le parole utilizzate: ad esempio, è quello che hanno fatto negli Stati Uniti. Oppure ci si basa su un certo parlato popolare del Paese di traduzione, in uso soprattutto fra i giovani. Credo che per l’italiano si sia seguita piuttosto questa strada».
Si parla di un’influenza pasoliniana su di lei, proprio per l’utilizzo della lingua dei giovani delle periferie…
«Non parlo l’italiano. E ho provato a leggere i romanzi di Pasolini, ma i testi in francese non sono riusciti a restituirmi quella lingua. Invece, ho letto direttamente in inglese Trainspottin», di Irvine Welsh, che ha dato vita a un linguaggio nuovo, che rende vivo il suo romanzo. Poi, da un altro punto di vista, mi sono ispirato a Romain Gary, che in La vita davanti a sé fece parlare un bambino con le sue parole. Invece, per il ritmo del romanzo, uno dei miei riferimenti è Patrick Modiano e le sue descrizioni di Parigi. E la capacità di rovesciare una scena su niente».