Tuttolibri, 7 settembre 2019
Gadda su Montale
Alvaro e Vargas (Forza del Destino) si abbandonano ai trasporti del duetto, superano virtuosamente ogni barriera del trillo, raggiungendo nell’unisono il la naturale. Saio e cordiglio addobbano la figura del novizio: un accappatoio da spiaggia modello 1910, coi due fiocchi in cintola, col cappuccio a triangolo. Nella dolce notte, al terzo piano d’una villa sul mare. Montale, in accappatoio, e un suo fratello: magari in accappatoio anche lui. Inaudita la risonanza dell’anticamera. L’architetto, imbrogliandosi nel conto degli scalini, ha regalato a questa nidiata di melòmani la formidabile acùstica del terzo piano. Un altro fratello, battuta per battuta, ha in testa tutto il repertorio operistico, dirige e interpreta con più stile d’un direttore da bacchetta. Imbastiscono Traviate e Barbieri: avvolti in uno scialle, in un lenzuolo, in una coperta da tavolo.
A piazza di Brignole Montale studia il canto, con Ernesto Sivori reduce da trionfi iperbòrei, specialista in Simon Boccanegra. Il Bòris è il suo sogno: sembra fatto apposta per lui, Montale, che è basso-cantante. Ma il maestro lo lega al di qua della cancellata, alle dolcezze del bel canto, Favorita e Lucia. È il Montale di Genova, tra vocalizzi e solfeggio, con un sogno nell’ùgola piena di virtù: le folate di libeccio investono il portico di Sottoripa, il Palazzetto nero e le arcate lissandriniane del Banco: lo vedremmo, con uno spartito sotto il braccio, «andarsene zitto», sfiorare con un saluto «’o scagno » paterno, dileguare nell’ombra di un carrùgio. Egli è nato a Genova nel giorno colombiano, il 12 ottobre 1896: padre di Monterosso, madre genovese.
Tra Genova e le Cinque Terre la giovinezza, appassionata, chiusa: dolorosamente pensosa. Una estrema capacità di astrarsi, un netto precipitare dell’immagine: è «il falchetto che strapiomba» sulla concreta preda. Così la villa paterna di Monterosso, «la casa delle mie estati lontane» e tutto lo scabro ardore della rupe, morsa alle radici dalle spume del golfo, dischiudono il volo alto della poesia. Il mare è il simbolo d’una paternità còsmica. «Nasceva dal fiotto la patria sognata – dal subbuglio emergeva l’evidenza». Al Montale degli Ossi di Seppia si offrono come pretesti di meditazione poetica « l’àgave che s’abbarbica al crepaccio dello scoglio», «la foce sterile d’acque». È, volta a volta, il «male di vivere» incontrato nel greto riarso, o il canto implorante: «tu non m’abbandonare mia tristezza...».
E, tuttavia e sempre, il canto: l’innato amore della voce. La conoscenza e la pratica viva del canto sono (secondo Montale) altrettanto necessarie all’uomo-mùsico quant’è il latino all’uomo-umanista. La voce, nota o parola, musica o poesia, è lo strumento principe dell’uomo pensante e senziente. La transizione dal canto alla lirica si manifesta in lui come un passaggio spontaneo: evoluzione fisiològica, felice ed ingenua metamòrfosi della urgenza espressiva.
Se a Genova e in Liguria le prime conoscenze e frequenze, la guerra lo impegna: nel ’17, nel ’18. Con la brigata Liguria, tenente nel 158° fanteria, è sul Monte Corno, (in Vallarsa), e sul Lòner. Le trincere di Valmorbia, sotto al forte austriaco del Pozzacchio (da cui stillano, a quando a quando, note di grammofono dentro la fossa del Gleno), ci han valso la lirica stupenda che sembra ancora illividirsi nella luce dei razzi: «Le notti chiare erano tutte un’alba – e portavano volpi alla mia grotta». Montale entra a Rovereto coi primissimi nostri.
Fonderà poi «Primo Tempo» (Torino 1922, sette otto nùmeri) con Sergio Solmi e De Benedetti. Ha conosciuto Solmi alla scuola di Parma.
Poi, nel 1927, lo stacco dalla città natale, dalla famiglia, quasi dalle luci di giovinezza. Gli anni ov’egli talora usava «meriggiare pallido e assorto», o attendeva il sopravvenir della notte «sul rialzo a strapiombo sulla scogliera», ecco già sono divenuti «memoria», cosa del tempo consumato. Nel 1927 a Firenze, da Bemporad. Amari motivi di povertà concorrono a determinare il trasferimento, che tuttavia lo porta nella città di elezione. Nel 1929 ottiene la direzione della biblioteca Vieusseux, fondata ai dì del Granduca come «gabinetto di lettura». Alla fine del ’38 il Comune di Firenze ritiene di privarsi dei di lui uffici: e Montale a tradurre, a scrivere, vivendo dei non lauti guiderdoni editoriali.
La sua immagine di allora procede verso di noi, come uscita dalle quinte d’un tempo enigmatico. Né triste, né lieta, in un atteggiamento di attesa e di fermezza, quasi di chi preveda un nuovo sberleffo del destino o l’opinione contraria d’un interlocutore clamoroso. Quasi di chi sia stato estratto da un suo disperato rimuginare, e muova, ancora tutto infarinato di angoscia, verso le occorrenze minute, anzi minutissime, di questo «piccino fermento» del suo vivere. Con la sigaretta dalla lunga e pericolante cènere nel bocchino di ciliegio, egli si avanza a passetti esatti salutandoci sottovoce, con una formula secca, di timbro un po’ genovese. Grandi capriate di legno sorreggono il tetto della sala di distribuzione, nel Palazzetto di Parte Guelfa, come in una chiesa francescana: al banco signore straniere, talora con un cagnolino con un campanellino al collo.
Conosciamo a Montale vasti interessi di pensiero: ha letto filosofi e romanzieri, ha seguito i poeti, di più lingue. Ha atteso alla critica letteraria, saggista felice in riviste, in quotidiani: «L’Esame», «La Fiera Letteraria», «Il Convegno», «Pan», «Pegaso», «L’Italia che scrive», «Il Lavoro», «L’Ambrosiano», hanno accolto i suoi articoli attenti, dedicati a italiani e a stranieri: fra i primi Svevo, Linati, Comisso, la Manzini, Tecchi, Stuparich, Loria, Quarantotti, Pea, Cecchi, Bonsanti: e i due poeti dialettali Edoardo Firpo (genovese) e Virgilio Giotti (veneto): e molt’altri. Alla pittura e ai pittori dedica una fraterna, appassionata curiosità. Di buon giudizio in materia, li ha talora sorretti d’un suo suggerimento, o d’un rimprovero che l’amore dettava. Pittori e scultori di Firenze (fra cui Andreotti, Carena, Colacicchi, Magnelli, Vagnetti) lo hanno laureato poeta col «Premio dell’Antico Fattore» (maggio 1931, lire mille): hanno dato ognuno un disegno al fascicolo (oggi rarissimo) de La casa dei doganieri e altri versi : Firenze, Vallecchi, 1932-X.
Larghissime e varie le conoscenze: dalla toga alla zappa, dal letterato accademico a Cesare, il vecchio e autoritario tavolante delle Giubbe Rosse, che presagisce lo scacco matto all’un dei due, nei finali di torneo. Montale avvicina gli umili, e ne fa pregio e ne cava dottrina, ove il caso dimandi: il suo fiuto estroso ne ha misurato il valore, ne ha compatito la sofferenza. Artigiani, lavandaie, pescatori, contadini, fantesche. L’ho udito scherzare col povero diavolo, nel totale crollo della cenere dal bocchino di ciliegio: (trema leggermente la mano, come ai battiti d’una fraternità dolorosa). L’ho veduto interrogarli con un sorriso, nel provvisorio stare delle sue soprascarpe di gomma: o sovvenire, in una rapida luce del volto, al loro impegno o al loro impaccio. Un motto pronto, liberamente evasivo dal lebbrosario della miseria, o dal serpaio dello scàndolo. Montale non è «prude». «Gli vizî umani» conosce (negli altri) e, direi, indaga. Con una certa ghiottoneria. Non patisce veti interni. Quando uno o una gli urta i nervi, è lo spasso. La sua icastica abituale si alluzza allora in una epifania di trovate, a base di senape e di pepe di Cajenna. Il malumore lo shakespearizza.
Deforma il dato reale e positivo in una favola semi-seria, semi-imbronciata, semi-ironica, semi-malinconica, semi non so che cosa, per cui d’un ratto in trappola d’amore è bell’e che nata un’Iliade, di che tutta Italia fa gargarismi. La donna ha in lui il poeta, uno stilnovista « sui generis». Che vede e celebra sul margine degli abissi financo la donna-sogno, la donna-che-non-esiste: o che esiste «presenza soffocata» nella nostra angoscia e nella vana speranza. «Tutto ignoro di te fuor del messaggio – muto, che mi sostenta nella via». Alla sua donna lontanissima, forse esulata dal mondo, scrive Notizie dall’Amiata, mirando specchiarsi «in fondo al borro l’allucciolìo – della Galassia, la fascia d’ogni tormento».
La poesia di Montale è oggi raccolta nei due volumi Ossi di Seppia e Le Occasioni. Degli Ossi, fino ad oggi, sei edizioni: Gobetti, Ribet, Carabba, Einaudi, dal 1925 al 1943. De Le Occasioni quattro edizioni Einaudi, dal 1939 al 1943. E gli dobbiamo traduzioni di alto valore: esemplari quelle da Cervantes, Melville, Marlowe e Shakespeare, del quale ultimo ha curato Timone d’Atene, Il racconto d’inverno, La Commedia degli errori.
La sua poesia, affiora all’umano colloquio nella tersa nitidezza dell’immagine, nella spietata evidenza, talora in una grazia consolatrice appena soffusa di malinconia: «Ripenso il tuo sorriso ed è per me un’acqua limpida – scorta per avventura tra le petraie d’un greto». Attinge i valori più puri, i segni più felici di nostra lingua, in una specie idiomatica inusitata, ch’è insieme colta e fraterna, fulgida e dolorosamente opaca, personale ed eucaristica.
Sui momenti idiomatici e sulla scelta del vocabolo in Montale il lungo discorso è ancora al principio.
(da “Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi” di Carlo Emilio Gadda, Adelphi, 2019)