Tuttolibri, 7 settembre 2019
Heimat, il progetto per riscoprire l’identità tedesca
Per una ragazza tedesca nata alla fine degli Anni 70 il nazismo era semplice storia remota. Discorsi di Hitler analizzati frase per frase nei compiti in classe per stigmatizzarli ed eliminare dal vocabolario le parole colluse con la volontà di potenza ariana («razza» per esempio si poteva usare solo in ambito animale), visite scolastiche ai Campi, imprecisi sensi di colpa. Nora Krug è cresciuta a Karlsruhe vicino a una base americana con un sincero sentimento pacifista e solidi principi socialdemocratici. Un giorno, a New York per studio, incontra un’anziana con l’accento tedesco. Quando questa le dice, chinando gli occhi, che è sopravvissuta ai Lager sente il bisogno, una volta per tutte, di saperne di più sul passato della propria famiglia sempre taciuto come ogni segreto imbarazzante.
Ne è nata un’inchiesta, un reportage, un racconto di (in)formazione di disegni e calligrafia che, come tutti i diari, è zeppo di souvenir, divagazioni, ritagli, fotografie. Un capolavoro di story telling postmoderno che mescola i generi e li fonde. Commovente, appassionante, intelligente. S’intitola Heimat ed è il complemento di Maus. Là era l’esopizzazione dell’olocausto disegnata dall’ebreo Spiegelman, qui è la riconquista dell’identità da parte di un tedesco del XXI secolo.
«Heimat» significa tante cose. Un luogo, un paesaggio, una piccola patria anche immaginaria, al quale una persona associa senso di familiarità. Radici, casa, focolare. Il grande regista Edgar Reitz lo aveva usato per costruire un dolente affresco in 924 minuti di una famiglia prima, durante e dopo la guerra, riabilitando il senso filosofico di quel lemma meraviglioso (e intraducibile) che i nazisti avevano inquinato usandolo in associazione con i ritiri spirituali per cercare l’unione mistica con «il sangue e il suolo».
Per Nora, diventata cittadina americana e moglie di un ebreo newyorkese, cercare la propria Heimat perduta significa superare la vergogna astratta per i peccati germanici e porsi domande difficili sulle proprie famiglie per capire quanto i nonni furono collusi con Hitler. «Perché se non capisci da dove vieni, come fai a sapere chi sei?» Con la tenacia del detective e la paura di scoprire orribili colpe avite, rovista archivi militari, interroga storici dilettanti, ritrova parenti dimenticati, compulsa elenchi telefonici, cerca foto ingiallite nelle cassapanche e in scatole di latta sepolte dalla polvere, acquista memorabilia nazi ai mercatini delle pulci. Come nella favola di Hansel e Gretel segue le briciole di pane, sperando di «arrivare a casa».
L’agognata Heimat si riempie di «cose tedesche», a partire dal «bosco»: i fratelli Grimm, nel loro dizionario, hanno elencato oltre mille termini che contengono la parola «wald», per dire quanto quella nazione sia legata agli alberi. O come la tenace colla Uhu, il raccoglitore ad anelli Leitz, inventato nel 1896, per mettere ordine negli archivi, perché l’ordine è una tale ossessione in Germania che per dire va tutto bene nella vita, dici «alles in ordnung» (tutto è in ordine).
Il passato a poco a poco prende forma. La nonna Maria, inquieta e infedele, che fugge con dei soldati e genera figli di paternità incerta e finisce la vita come testimone di Geova, intervistata da un rivista della Ddr. Il nonno Willi che rilevò l’autoscuola dal titolare ebreo si iscrisse al partito perché amava il Führer o solo per sbarcare il lunario? L’altro nonno, Alois, fu sì soldato, ma nelle foto sembra una goffa caricatura del crucco cattivo con la pancia che gonfia il pastrano. Quegli uomini e donne che hanno assistito alla persecuzione degli ebrei, che sono stati spediti al fronte, che hanno subito le privazioni della guerra, i bombardamenti, l’occupazione, sono stati volenterosi carnefici del regime o semplici «Mitläufer», gregari, unitisi come pecoroni al gregge per debolezza di carattere? Trovi macchie inquietanti, ma anche l’esatto contrario, come la testimonianza di un ebreo che dopo la guerra assolve l’antenato. La verità sfugge, sbiadisce, si contraddice. Anche perché la Storia la scrivono i vincitori con tutte le parzialità del caso.
Certa, invece, è la parabola di Franz-Karl, lo zio. Restano di lui poche foto, bastano però per mostrare un bel ragazzo dal viso dolce, buono, ingenuo, talmente imbevuto di ideologia hitleriana fin dalle elementari da scrivere nel temino «gli ebrei sono «funghi velenosi che possono uccidere un intero popolo» per prendere 8 di «contenuto» (solo 7+ di ortografia). A 17 anni viene arruolato, e lo vedi in divisa da SS più o meno con la stessa faccia acerba del bambino che aveva ricevuto una capretta per la prima comunione. Pochi mesi dopo cade sul fronte italiano «prestando leale servizio».
Se interroghi il passato, più che trovare risposte, trovi lacerti di una normale famiglia contadina devastata dalla guerra. Negli slogan della propaganda politica, così convincenti con la loro astiosa banalità, c’è sempre una buona ragione per odiare il nemico di turno (magari gli ebrei) e difendere i confini della propria Heimat minacciati. Nella vita vera, invece, l’odio porta solo inutile distruzione, dolore, morte, fame. L’Heimat è un luogo dell’anima, più che della razza, del sangue, della purezza. Heimat lo spiega con una lucidità che sfiora la poesia. Se cominci a leggerlo, lo divori. Come se insieme a lei, l’autrice, cercassi te stesso in questo presente di nuovo astioso, bellicoso, violentissimo nelle parole usate a casaccio.