Il Messaggero, 7 settembre 2019
L’avventura di D’Annunzio a Fiume
Il 12 Settembre 1919, esattamente cento anni fa, Gabriele D’Annunzio, alla testa di trecento legionari partiva da Ronchi, una cittadina prossima a Trieste, per la più spavalda e incredibile avventura dell’irrequieto Poeta: la conquista e l’occupazione di Fiume, con la creazione di uno stato autonomo e una Costituzione rivoluzionaria. L’impresa fini in un fiasco, ma il Vate ne uscì incoronato, dimostrandosi così un mago dell’illusionismo: perché soltanto un prestigiatore geniale può convertire un fallimento in un successo.
L’Italia, uscita vittoriosa dalla guerra, aveva ottenuto quasi tutti i territori promessi con il patto di Londra, stipulato in segreto con gli Alleati nell’Aprile del 1915: il Trentino Alto Adige, la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia. Fiume, per quattro quinti italiana, non faceva parte di questo accordo, e il presidente americano Wilson fu irremovibile nel rifiutarne l’annessione all’Italia. I nostri rappresentati alla conferenza di pace di Versailles, Orlando e Sonnino, protestarono, supplicarono, piansero e alla fine abbandonarono il tavolo, salvo ritornarvi poco dopo, umiliati e offesi, per evitare guai peggiori. Fiume fu dichiarata città libera sotto un controllo militare multialleato. In Italia il governo cadde e si cominciò a parlare di Vittoria tradita e mutilata.
DISORDININel frattempo a Fiume erano scoppiati disordini: alcuni soldati francesi erano stati uccisi nei tumulti provocati da estremisti facinorosi, e il rude Clemenceau minacciava rappresaglie. Il nostro governo reagì in modo impacciato, e questo aumentava la tensione e le aspirazioni degli irredentisti. Agitatori interni ed esterni, a cominciare dall’irrequieto Mussolini, invocavano soluzioni cruente, dalla guerra civile all’abolizione della Monarchia. Fu in questo clima incandescente che D’Annunzio, alla testa dei suoi trecento opliti, iniziò la sua marcia da Ronchi. E l’esordio fu promettente, perché le schiere si ingrossarono di sostenitori e di soldati. Il generale Pittaluga, spedito dal Governo per fermarlo e magari arrestarlo, fece come Ney davanti a Napoleone fuggito dall’Elba e diretto a Parigi: consegnò la spada all’usurpatore e gli aprì la via del potere.
RISORSEMa prendere non è saper trattenere, e una volta insediatosi al governo di Fiume, D’Annunzio impiegò invano tutte le sue risorse fisiche e intellettuali per impedire la dissoluzione di un organismo precario. Spedì dei marinai, che pomposamente chiamò Uscocchi, a dirottar navigli ed impossessarsi dei carichi; chiamò all’appello giovani esaltati e veterani irriducibili per ampliare le sue schiere troppo esigue; inviò intermediari diplomatici all’estero, muniti di lettere patenti, tra la derisione e l’indifferenza dei destinatari; invitò scienziati, artisti e scrittori per una legittimazione culturale della sua stravagante città del sole, ed alcuni incredibilmente lo appoggiarono: persino Toscanini si recò per dirigervi un concerto. Infine fece redigere dal socialista De Ambris una Costituzione che chiamò Carta del Carnaro e che ornò delle sue barocche sovrabbondanze lessicali con effetti contraddittori: essa infatti mescolava un sindacalismo rivoluzionario con un corporativismo prefascista, anticipava concetti e principi libertari con vaghe aspirazioni utopistiche, e da ultimo prevedeva, in caso di necessità, la devoluzione dei pieni poteri a un Comandante. Un redivivo Fabio Massimo nel quale tutti riconobbero il Poeta.
VIVERIPer più di un anno la Reggenza di Fiume vivacchiò tra alti e bassi. Alla mancanza di viveri si rimediava con atti di pirateria da parte degli Uscocchi,mentre crescevano i conflitti interni tra chi aspirava all’annessione alla Patria e chi sognava una Repubblica indipendente mezza proletaria e mezza futurista. La popolazione italiana, all’inizio entusiasta dell’iniziativa, cominciò a soffrire delle inadeguatezze e delle stravaganze di un regime così strampalato. I mugugni aumentarono e i soldati cominciarono a disertare. Nel frattempo a Roma, dopo varie vicissitudini parlamentari al cui confronto la nostra terza Repubblica sembra un esempio di stabile e coerente continuità, l’ultimo governo Nitti cadde e subentrò Giovanni Giolitti. Un politico così esperto e autorevole non poteva permettere, alle soglie di casa, un simile pasticciata improvvisazione, e decise di porvi fine limitando tuttavia al minimo l’impiego della forza.
Spedì il generale Caviglia ad imporre un ultimatum, offrendo condizioni onorevoli ma minacciando il patibolo in caso di resistenza dei militari. Un breve cannoneggiamento navale all’indirizzo del palazzo del governo dimostrò che stavolta si faceva su serio. D’Annunzio evocò tutta la sua collezione di fumisterie eroiche e sacrificali per incitare i suoi alla resistenza e al martirio, ma alla fine dovette arrendersi all’evidenza dei rapporti di forza. Dopo qualche scaramuccia, le truppe italiane entrarono a Fiume e il 18 gennaio 1921 il poeta prese il volo. In un paese normale sarebbe stato impiccato, avendo commesso tutti i reati contemplati dal codice penale, compreso quello militare: da noi fu osannato e venerato più di prima.