La Stampa, 7 settembre 2019
Una mostra su Carosello
Questa clamorosa mostra su «Carosello. Pubblicità e televisione 1957-1977», piazzata un po’ a sorpresa fra i Van Dyck e i Goya della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (da oggi all’8 dicembre), è soprattutto una favolosa operazione-nostalgia per chiunque sia abbastanza vecchio da essere stato mandato a letto dopo Carosello.
Il primo fu trasmesso il 3 febbraio 1957: faceva la réclame, come si diceva allora, per Shell, L’Oréal, Singer e Cynar. Le regole erano già ferree: lunghezza di due minuti e 15, storie slegate dalla pubblicità vera e propria, condensata infatti in 35 secondi, per lo più nel «codino» conclusivo, unico elemento replicabile perché ogni Carosello era diverso dall’altro. Infatti in quel debutto Mike Bongiorno intervistava per L’Oréal un’avvocatessa penalista, allora una rarità, mentre incredibilmente il Cynar non era ancora il rimendio principe contro il logorio della vita moderna e il testimonial non era Ernesto Calindri, bensì Carlo Campanini nei panni di un barman prestigiatore.
Nell’Italia appena avviata sull’autostrada del boom, la pubblicità era vista con sospetto. Le due chiese di massa, la cattolica e la comunista, non amavano il consumismo, cosa che peraltro non gli impedì di stravincere. La Sacis, la concessionaria della Rai democristiana, vegliava non solo sui buoni costumi, ma anche sulle buone maniere: vietato, per esempio, dire «lassativo», da qui il celebre «Basta la parola» di Tino Scotti per i confetti Falqui. Le donne, ovviamente, erano sempre in casa e vestitissime, anche molto di più, fanno notare i curatori Dario Cimorelli e Stefano Roffi, di quelle alquanto scollacciate della cartellonistica bellépochiana. Colpisce che ancora nel ‘72 un Carosello della Singer fosse tutto giocato sul tema della donna al volante pericolo costante, e per la regia di Paolo Taviani (senza Emilio), poi.
Carosello era la via italiana alla pubblicità, un caso unico al mondo di concentrazione di tutti i consigli per gli acquisti in un’unica rubrica, il che fra l’altro non deprimeva la pubblicità sui giornali, alla radio o sui manifesti, qui ampiamente rappresentati. In quei vent’anni di Caroselli se ne produssero più di 30 mila, una media di quattro al giorno, un ritmo da telenovela sudamericana ma con ben altra fantasia. L’eutanasia di Carosello, il 1° gennaio ‘77, segnò la fine del sovranismo pubblicitario: non c’era più solo il primo canale, iniziavano le emittenti locali e poi le «private» e come nel resto del mondo la pubblicità tivù smetteva di essere sketch per diventare spot. In effetti, già nei Caroselli degli Anni Settanta i pantaloni a zampa d’elefante e le musiche yéyé quasi disturbano, come se con il Sessantotto fosse finita quell’età dell’innocenza italiana che furono i nostri favolosi Sixties.
Naturalmente, ci sono tutti: Totò e Alberto Sordi, Vianello in coppia sia con Tognazzi che con la Mondaini, Mike, Baudo, la Carrà, Virna Lisi, Vittorio Gassman, Fernandel, Rascel, Macario, il Quartetto Cetra, Franco Cerri sempre a mollo nella lavatrice con il Bio Presto, e una Mina regale che nel ‘66 canta per la Barilla su fondali metafisici come un De Chirico: sono, si scopre sul ghiotto catalogo, il tetto della stazione di Napoli e la scalinata del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur.
E ancora: un Paolo Poli fantastico per la Nestlé nel ‘64, un Dario Fo spiritato e spiritoso per Barilla nel ’59, i divi d’importazione, Joséphine Baker, Dalida, Sylvie Vartan, Abbe Lane, Brigitte Bardot. Nel ‘68 Louis Armstrong gira a Modena quatto short in cui suona When the Saints go marchin’in. Già è surreale Satchmo che fa il Carosello a Modena, ancora di più che nessuna marca l’abbia voluto usare: così la pellicola finì prima in un cassetto e poi, pare, distrutta.
Si rivedono Topo Gigio, la Linea di Osvaldo Cavandoli, Caballero e Carmencita di Armando Testa, l’ippopotamo Pippo pure di Testa (con schizzi dettagliatissimi per i due disgraziati che lo muovevano dall’interno), Calimero di Pagot, Angelino di Paul Campani, Camillo il coccodrillo, Susanna tutta panna, la mucca Carolina. Slogan indimenticabili per prodotti forse dimenticati oppure ancora sulla breccia e sugli scaffali, il digestivo Antonetto, il rabarbaro Zucca, la carne Montana, la dolce Euchessina, mentre i registi si chiamano Emmer, Bolognini o Scola. Carosella anche chi non t’aspetti: così nel ‘57 l’Amarena Fabbri usa Renato Guttuso, «il Picasso italiano». Anche Salvador Dalì in Francia era il testimonial del cioccolato, fotografato mentre addentava goloso la barretta che gli faceva subito rizzare il celebre baffo.
Operazione nostalgia, si diceva. Non tanto e non solo di vent’anni di irripetibile creatività, ma di quell’Italia giovane, ottimista, innovativa, proiettata sul futuro e sul mondo, non rancorosa né arrabbiata. Oggi che siamo ridotti a rimpiangere non dico De Gasperi, ma perfino Fanfani o addirittura Rumor, volete che non sembrino «mitiche» invenzioni geniali come la Linea o Calimero? Vero che noi a letto subito dopo Carosello ci siamo andati davvero...