il Giornale, 7 settembre 2019
Ho imparato ad adoperare la lavatrice
In un pomposo sfoggio di dignità, il quindici agosto scorso ho fatto la mia prima lavatrice. Perché tanta enfasi per un gesto così banale? Perché un mese prima avevo compiuto quarantasei anni e, affetta da questa inabilità, stavo costeggiando l’abisso del ridicolo. Ora non starò qui a spiegare come io sia riuscita ad attraversare quasi mezzo secolo indenne da bucati, per non dire ignorante di bucati, anche se forse qualcuno anelerebbe a conoscere il mio «segreto»; quello che vorrei invece raccontare è l’effetto che la centrifuga ha avuto su di me. Non posso dire che la mia reazione davanti a questa nuova capacità mi abbia sorpresa del tutto, perché imparare a fare la lavatrice è sempre stato un mio pensiero «provvisorio», uno di quei pensieri che si ospitano, magari anche a lungo, a cui non si dà seguito ma che ti pungono le tempie di tanto in tanto. Ho sempre voluto imparare, in realtà, perché sono sempre stata convinta che essere autonomi nel lavare i propri panni fosse una grande conquista. In grado di sottrarti dalla tirannia del domestico in ferie, delle tintorie chiuse o inesistenti, dalla bolla di solitudine nella quale si finisce sempre col galleggiare ad agosto nella città (...)
(...) che diventa Gotham City. Il mio retropensiero aveva ragione: imparare a fare il bucato è stato come prendere la patente di guida, come ottenere le chiavi di casa, il primo stipendio o raggiungere la maggiore età. Tra me e la lavatrice è stato un tardivo colpo di fulmine, come se il suo oblò fosse stato quello della Love Boat. Premetto di avere una struttura un po’ nevrotico-compulsiva perciò quando mi consegno a qualche moda, tendo a esagerare: mi sono quasi bollita le viscere a furia di bere acqua e zenzero, ho fatto abuso di sushi, quando ho deciso di fare un po’ di detox non ho bevuto manco una birretta per un anno, quando faccio shopping... faccio shopping e insomma così. Tendo a saltare le mezze misure.
Con il bucato è stato lo stesso. Dalla prima lavatrice, mi sono appassionata alla pratica quindi intervistando amiche e addette ai lavori ho scoperto gadget magici: foglietti acchiappacolore, palline di lana bio e ammorbidenti, detersivi specifici per i capi sportivi (io non faccio sport dal 1985 ma in casa c’è chi ne fa parecchio), infallibili smacchianti e coadiuvanti del bianco-che-più-bianco-non-si-può.
In poco tempo sono passata da carichi monotinta a lavaggi azzardati: dai delicati ai sintetici passando per i colorati e arrivando persino a quelle tovaglie esasperatamente quadrettate. Ogni volta che lei mi dà il segnale e io spalanco l’oblò, è una soddisfazione scoprire che i capi escono esattamente come sono entrati, solo puliti, senza restringimenti o pigmentazioni indesiderati. E quel foglietto... Quel salvifico foglietto di carta assorbente che finisce il ciclo di lavaggio sempre esausto ed emaciato ma orgoglioso di avere fatto il suo lasciando bianca la camicia bianca e azzurri i boxer azzurri.
Che soddisfazione!
Adesso mi sembra di essere libera di fare e andare dove voglio con un’autonomia di guardaroba tutta diversa. Potrei, che so..., affittare un appartamento in Olanda e lavare da sola la mia roba, potrei avventurarmi per New York in cerca di una di quelle lavanderie a gettone e finalmente usarne una, potrei trattenermi da qualche parte all’improvviso senza l’incubo di pensare alla «cambusa» dei miei cambi.
Chissà poi perché mai dovrei fare anche una sola di queste cose... Ma non importa: non le farò, però so che, se volessi, adesso potrei. Adesso che davanti al cassetto del detersivo non ho più l’aria di una gallina confusa che sta covando un uovo di struzzo.
Adesso che un bucato mi ha resa libera. E voglio godermi questa sensazione ancora un po’ prima di fare i conti con il fatto che ancora non so stirare.
Valeria Braghieri