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 2019  agosto 31 Sabato calendario

Intervista ad Antonio Ballista

Ha conservato un certo alone tipico dell’adolescenza, quando fra i 13 e i 17 anni si sperimenta tutto per il solo senso del piacere che un libro, una musica, uno strumento provocano, come fossero la sola ragione di vita. Antonio Ballista di anni ne ha 83 ma possiede ancora una mente agile, policroma, tanto intelligente quanto provocatoria. La musica è il suo tappeto volante: classica, moderna, cabarettistica, leggera. Ha uno slang sdrammatizzante che abita in quel bizzarro palazzo che è il suo cuore. In dose minore egli coltiva anche l’arte della pittura. Non so che valore attribuirle. Un artista che divide il proprio linguaggio è come se spartisse il proprio pianto o riso, diluendone l’intensità.
Si sente così versatile?
«Forse sono soltanto sanamente schizofrenico».
Il suo repertorio musicale è vasto, articolato e ironico. Non disdegna il classico, l’avanguardia, ma anche la musica di più largo consumo. È contro il purismo?
«Mi ritengo un allievo di Igor Stravinsky, del quale ho sempre messo in pratica un’aurea prescrizione: "Ascoltate la musica con le vostre orecchie". Sembra facilissimo da mettere in pratica, ma non lo è. Nella mia vita professionale ho cercato di andare al di là di ogni moda e condizionamento accademico o ideologico».
La libertà di linguaggio coincide con il nuovo?
«Il nuovo l’ho sempre cercato in tutta la musica e non solo nelle opere contemporanee. Attuale per me è tutto ciò che si vive intensamente al presente».
Lei è stato tra i protagonisti dell’avanguardia degli anni Cinquanta. Come vede oggi quella musica?
«Già allora la consideravo come solo una delle possibilità di quell’epoca; dopotutto nulla mi impediva di dedicarmi negli stessi anni ad altri generi, compresi quelli cosiddetti di consumo, mi ero incapricciato del ragtime e nella frequentazione della musica non sono mai riuscito a separare il coinvolgimento, la passione e il divertimento».
Jazz, blues, rock, rap, sono linguaggi della contemporaneità: cosa li unisce? Cosa le piace di questi generi?
«Sono convinto che le distinzioni di genere non devono essere considerate discriminanti. Nel mio programma Made in Italy ho arrangiato con il mio gruppo Novecento e Oltre alcune tra le più indimenticabili canzoni italiane della prima metà del secolo scorso. Siamo partiti dalla Scala per approdare in America. Le trascrizioni le affidai ad Alessandro Lucchetti con cui ho allargato il repertorio alla musica da film, da Rota a Mancini, e al rock dei Beatles fino a Stevie Wonder e altre icone del pop».
Di solito chi si dedica alla musica lo fa anche perché in famiglia c’è una tradizione da rispettare.
«Mio padre era un buon dilettante di pianoforte e grande ammiratore di Wagner. Ricordo che ero ancora adolescente quando mi faceva seguire sugli spartiti l’esecuzione radiofonica della Tetralogia diretta da Furtwängler. Sullo sfondo di questa passione c’era mio nonno, maestro sostituto alla Scala, molto amico di Puccini che frequentava spesso la nostra casa».
Vivevate dove?
«Abitavamo a Milano nell’ottagono della Galleria Vittorio Emanuele, dalle finestre della casa potevo osservare i mosaici della volta».
Come definirebbe il talento?
«È ciò che lo studio non potrà mai sostituire. Dunque è un dono».
Nel Novecento pianistico chi lo ha ricevuto?
«La prima metà del secolo scorso ci ha lasciato un patrimonio di varietà di linguaggi come non si riscontra in nessun periodo della storia della musica. Dunque è impossibile elencare tutti questi giganti. Ma un genio pianistico della seconda metà del Novecento vorrei citarlo: Sviatoslav Richter. Forse nessuno come lui è arrivato ad un grado così alto di differenziazione delle poetiche dei vari compositori».
So che ha studiato con Boulez, che ricordo ne ha?
«A me ha sempre fatto l’impressione di un diplomatico di raro fair play e contemporaneamente di un inquisitore capace di decisioni efferate. Lo frequentai a Parigi. Prima dei concerti pretendeva di assistere all’intero programma, in sala da solo. La volta che capitò a me ero terrorizzato. Si mise in platea ad ascoltarmi. Alla fine non ci fu nessuna reazione, pensai che si fosse addormentato».
Nel corso della sua lunga carriera una presenza costante è stata quella di Bruno Canino.
«Il mio sodalizio con Bruno è cominciato più di sessant’anni fa, al conservatorio di Milano. Accanto a Verdi, Puccini e Wagner ascoltavamo la musica moderna: Petrassi, Dallapiccola, Casella, Malipiero, ma anche Stockhausen, Berio, Ligeti, Boulez, Cage. In quei nostri anni giovanili l’unico duo pianistico rilevante era quello composto da Gorini-Lorenzi».
Pensaste di ripeterne il modello?
«Con la differenza che il duo Gorini-Lorenzi era nato in una fase di relativo isolamento culturale dell’Italia; mentre Bruno e io avemmo la fortuna di cominciare la nostra attività in un momento di grande fervore e rinnovamento. Ci inserimmo ben presto nel giro degli esecutori della "Neue Musik" che, a partire dagli anni Cinquanta, si era diffusa da Darmstadt in tutte le direzioni».
Che reazioni c’erano da parte del pubblico?
«Non tutte favorevoli. Eseguire musica d’avanguardia poteva comportare qualche rischio. Una volta a Bordeaux durante uno spettacolo con il Living Theatre, con Bruno ce la vedemmo brutta. Gli spettatori erano inferociti. Fummo salvati dall’intervento della polizia».
Vi piaceva la provocazione?
«Ci piaceva, certo, anche se non sempre ne valutavamo le conseguenze. Negli anni Sessanta arrivammo ad eseguire nella tradizionalissima "Società del Quartetto" gli scandalosissimi Tableaux vivants di Sylvano Bussotti. Fu durante la nostra esecuzione, tra lo sconcerto del pubblico, che Cathy Berberian ebbe l’idea di attraversare il palcoscenico avvolta in pesanti catene».
Prima accennava a Darmstadt. Che impatto ebbe su di lei?
«Non sono mai stato a Dartmstadt, ma agli inizi degli anni ’50 si guardava a Darmstadt come a una rivoluzione totale nella musica. Lo spirito scientista, almeno in principio, aveva preso il sopravvento. Improvvisamente una koinè internazionale si impose in tutti i più importanti centri musicali: da Milano a New York, da Stoccolma a Tokyo. Nel giro di qualche anno tutto questo fervore si trasformò in accademia».
Quante ore dedica al pianoforte?
«La mia giornata è piuttosto atipica. Detesto le ritualità. Al pianoforte sto ogni volta quanto mi serve».
E alla pittura?
«Quando e finché ne ho voglia, come fanno i bambini con i loro giochi».
Cosa l’ha spinta a dipingere?
«Sono un autodidatta. Sollecitato a continuare da due grandi pittori miei amici: Ruggero Savinio e Gotthard Bonell. Alcune delle mie opere sono state accolte a Vienna e in Giappone. La mia attenzione per gli oggetti e i luoghi abbandonati mi ha fatto avvicinare all’estetica giapponese del Wabi-sabi» (si potrebbe tradurre con bellezza malinconica).
Dipingere è la compensazione per ciò che la musica non le ha dato?
«Assolutamente no. Non trovo alcun nesso tra le mie diverse attività. Se mai, per ripetermi, una sorta di salutare schizofrenia. Ma allo stesso livello di interesse, fra un concerto e una mostra di pittura scelgo quest’ultima».
Perché?
«Tanto le mostre che i musei soddisfano una certa tendenza bulimica del mio carattere».
Ritiene che il suo impegno, la sua bravura abbiano sempre avuto il riconoscimento che meritava e merita?
«Come esecutore sono stato apprezzato probabilmente più di quello che merito».
Chi è oggi un artista che si trova a dover fronteggiare un mondo che volge decisamente al peggio, cioè che è sempre più banale, aggressivo, volgare?
«Nella odierna assenza di gusto — molto più deleteria del cattivo gusto che è pur sempre una scelta — si conosce il prezzo di tutto e il valore di niente. Un artista oggi può sentirsi fuori luogo, come Debussy diceva di Satie».
C’è un periodo che rimpiange?
«Sì, la vita culturale a Milano tra il 1960 e il 1980. Era una città libera e laica».
Il suo rapporto con Dio?
«Non posso fare a meno di inchinarmi al mistero delle leggi della Natura di cui mi sento parte. Penso che una buona disposizione alla spiritualità possa essere favorita dalla libertà di spirito e non dai dogmi e dai catechismi fondati sulla speranza della sopravvivenza. Ma a parte la fede, se Gesù Cristo non fosse esistito si sarebbe dovuto inventarlo».
La musica, quando è altissima, è un modo diverso per pronunciare la parola Dio?
«Non solo la musica ma tutte le meraviglie del mondo che pochi vedono, anche se sono offerte agli occhi di tutti, sono i famosi "segreti palesi" a cui accennava Goethe».
Ricorre spesso nelle sue risposte la parola "schizofrenia": crede davvero che possa essere un sintomo della creatività?
«Credo che tutti noi siamo un immane coacervo di impressioni e di esperienze alle quali solo la memoria conferisce una parvenza di unità. Il bisogno di non identificarsi, sia nella professione che nella vita, in un ruolo fisso è quello che io chiamo una sana schizofrenia».
Nella sua "schizofrenia" cosa ama leggere?
«Alle medie mi interessavo pochissimo alla scuola, ma mi ero incapricciato di una intera serie di libri dell’olandese Hendrik van Loon, che riguardavano un po’ tutto lo scibile. Leggevo questi libri sotto banco nelle ore di scuola, senza essere mai scoperto. Sono stati fondamentali per la mia formazione, instillandomi, già da ragazzo, il dubbio e l’interesse per la mentalità scientifica. Poi ho scoperto autori che ho amato e continuo a frequentare: Rabelais, Montaigne, Diderot, Sterne, Twain, Calvino, Borges e l’incomparabile Zibaldone di Leopardi. Illuminano questa parte finale della vita».
Come interpreta la vecchiaia?
«Non la interpreto, non è mica uno spartito da eseguire.
Mi piace pensare a quei momenti della vita che mi hanno fatto capire l’enorme valore di ogni istante di felicità che ci è stato regalato».
La felicità è dunque un dono?
«E che altro può essere, vista la sua rara intermittenza?».
Si piace?
«Potrebbe anche darsi, se solo riuscissi a conoscermi meglio».
La vanità è il limite al proprio conoscersi. È vanitoso?
«Non credo di esserlo, ma questa affermazione potrebbe rivelarsi il massimo della vanità».
È malinconico?
«Amo troppo l’imprevedibile per farmi catturare dalla malinconia».
È generoso?
«Con me stesso lo sono nei limiti di un certo epicureismo. Verso gli altri mi piacerebbe possedere quell’attenzione che Simone Weil raccomanda».
Attenzione in che senso?
«Come quando si desta l’interesse per qualcuno o qualcosa».
Con quale frase convive o si riconosce meglio?
«Questa: "Il punto di osservazione crea il fenomeno".
L’unico dogma per me incontrovertibile in cui posso credere».
Le consente forse di tenere insieme profondità e leggerezza nella musica. Ma davvero ritiene sia possibile?
«La domanda potrebbe essere concepita in questo modo: ci sono autori considerati troppo leggeri per un musicista di estrazione classica?».
Che risposta si dà?
«Chi lo pensa crede che la profondità in musica debba necessariamente esprimersi in strutture complesse e che la semplicità e la facilità debbano conseguentemente essere identificate con la banalità. Se questo fosse universalmente accettato dovremmo buttare via metà della musica occidentale. E non dimentichiamo che per intellettualismi di questo tipo Igor Stravinsky arrivò a dare elegantemente del cretino a Marcel Proust».