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 2019  agosto 31 Sabato calendario

Intervista a Renato Carpentieri

ANapoli, a Pizzofalcone, ci accoglie Renato Carpentieri, fiero di mostrarci lo studio teatrale che avvierà entro ottobre, battezzato Officine Carpentieri. «La struttura fu un cinema negli anni Venti, una sala registrazioni per orchestre della Rai, poi per Aurelio Fierro, alla fine la proprietaria la lasciò alla comunità ebraica perché la trasformasse in sinagoga ma a Napoli c’è già un tempio, lo spazio l’ho preso io in affitto, restaurandolo». Parquet, fregi e lucernario di questa palestra al cui progetto collabora Valeria Luchetti, sono da atelier parigino. «Qui si può inventare o provare, o assistere a proiezioni — spiega Carpentieri — ma non fare spettacoli. Prevedo tre sezioni, "Mutamenti", "Passaggi" e "Studi" per arrivare a un’essenza come faceva Wajda, o produrre corti».
La mano tesa ai giovani testimonia una vocazione da artista sociale. Ma c’è riservatezza sulle tre opere per il grande schermo in cui lei apparirà...
«Posso dire che il mio personaggio in
Hammamet di Gianni Amelio non è amico né nemico di Craxi. Il cortometraggio Passatempo sempre di Amelio, fuori concorso a Venezia, contiene un gioco pericolosissimo tra me e un migrante. Nel film La vitadavanti a sé di Edoardo Ponti ispirato a Romain Gary, la mia è una partecipazione accanto a Sophia Loren, diva gentile e umile».
Lei ha trascorsi molto forti.
«Sono di sinistra, non ho a che fare con la borghesia. Ero alla scuola del Partito Comunista alle Frattocchie, poi ho battagliato per idee di architettura, denaro e potere, mi sono formato ai Cut, appartenevo a una generazione ribelle amica dei poeti. Ho partecipato a cortei, condiviso una donazione di Dario Fo, 5 milioni, che servì a invitare il Living Theatre, e seguivo Grotowski. Ho lasciato l’università per il movimento studentesco, e per il Partito Marxista Leninista, andando in giro con un pulmino rosso per proporre scene di emigrazione, sindacalismo corrotto e agit-prop. Finché ebbi per maestro Claudio Meldolesi, e seppi tutto su Gustavo Modena, attore-attivista che è il mio idolo, e dal 1975 lavoro col teatro».
Che teatrante pensa di essere?
«Sono brechtiano di formazione, mi piace la comunicazione secca e breve, tipo Beckett, non mi interessa la prosa confezionata, amo le scritture fuori centro, ho accettato volentieri di fare per otto anni la fiction La squadra ma a patto di dire o far dire altrove cose che volevo sentire, brevi letterature o filosofie che ho inscenato per 13 anni nel mio Museum alla Certosa di San Martino di Napoli».
Unanime il tributo di popolarità e carisma, per lei, col David di Donatello per "La tenerezza" di Amelio. Senso critico e istinto da intellettuale organico hanno frenato i riconoscimenti, prima?
«Era fatale che dieci anni fa non ricevessi considerazione, salvo le stime di alcuni cultori. L’opinione che suscitavo era simile, per dirla alla D’Arzo, a quella di "un sottufficiale della cultura". Valeva l’equazione meno pubblico uguale più libertà, e avevo lavorato nel Teatro dei Mutamenti (facevo l’arredatore di negozi per pareggiare i conti), alternando con Pontedera, Fo, Salvatores, il Teatro Nuovo di Napoli, Libera Scena Ensemble, e iniziando con Martone nel 1993».
Com’è nato il rapporto quasi costante con Martone?
«Con me che lo fischiai negli anni ’70 al San Ferdinando, finché ci siamo capiti e proposti di fare una cosa assieme. M’ha chiamato per il film Morte di un matematico napoletano,
poi per Riccardo II, e varie altre volte. Lui stima la mia lealtà, io la sua disponibilità ad ascoltare».
Come si misura col Prospero de "La tempesta" diretta da Roberto Andò, in tour a Firenze e Roma, e "Braci" di Marai, a Napoli e Roma?
«Con Prospero c’è la gioia di dire parole rimuginate da me, uomo meridionale di cultura, e una lezione di contegno. In Braci mi prende il tema dell’amicizia e del tradimento dell’amicizia. E la sconfitta ha un fascino».