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 2019  agosto 31 Sabato calendario

Una giornata nella Stanza della Rabbia di Bologna

In questa stanza, a pagamento, chiunque può entrare e spaccare tutto. Abbiamo richieste da tutta l’Italia». È la definizione, semplicissima, di ciò che avviene alla periferia rurale di Bologna, fra distese di erba seccata dal sole e capannoni industriali più o meno dismessi. L’idea è giapponese, e funziona alla grande a sentire le due giovani proprietarie, orgogliosissime, una con un passato da commessa, l’altra ex amministratrice di condomini (come dire che nel loro percorso c’era una palestra di autocontrollo non indifferente).
È la seconda a farmi strada: « Immagino che anche tu vorrai provare. Però devi prima indossare casco e coperture varie. Poi scegli: vuoi la mazza ferrata o quella da baseball? » . In realtà non lo so se voglio davvero provare. Non lo so perché la rabbia è un sentimento strano: credi spesso di temere quella degli altri, ma a inorridirti di più è la tua, quella che ti scoppia magari all’improvviso e ti fa toccare con mano quanto sia labile il presunto autocontrollo.
Per cui esito. Magari, mi dico, fra dieci minuti cambierò idea. Intanto cerco di capire cosa diamine sia, questa frequentatissima Stanza della Rabbia. Entro. I neon proiettano una luce livida. A colpirmi non sono tanto i cocci di vetro disseminati ovunque, quanto le macchie di vernice sulle pareti: ce ne sono perfino sul soffitto, ricordandomi la strepitosa sequenza de La grande bellezza in cui una baby- performer si esibiva gridando come indemoniata, e riversava fiammate cromatiche su una tela intonsa. Evidentemente il mio sguardo tradisce la curiosità, per cui mi giunge provvidenziale la spiegazione: « La possibilità di distruggere secchi di vernice scatta solo quando hai già collezionato più sessioni: è come un premio. Prima di quello trovi mobili vecchi, piatti, tutt’al più televisori. Ma la vernice piace un sacco…».
Già, la vernice piace un sacco. Perché la distruzione di un comò sarà anche gratificante, ma è circoscritta alla veemenza liberatoria del gesto, mentre la vernice no: lei lascia un segno, resta come un urlo grafico, una testimonianza agli altri, e la rabbia è sempre collegata agli altri. Credo sia qui l’importanza di quei boati rossi, verdi, blu: la manifestazione della rabbia è sempre limitrofa all’arte, condivide con lei quel varcare il limite del lecito, del socialmente plausibile, del galateo borghese.
È la riflessione che mi nasce spontanea contemplando gli schizzi technicolor della Rage Room di San Lazzaro: nessuno, in quello stato che definiremmo " furente", riesce a disegnare forme compiute, bensì lascia che l’emozione si esprima sotto forma di sputi colorati, squarci. E sta in fondo in questo la sua antica demonizzazione: essa è un’entità controcorrente, un relitto animale, forza destabilizzante.
È stato questo a incuriosirmi, portandomi a sfidare la calura padana per toccare con mano cosa siano le Rage Rooms, fenomeno in crescita costante, in cui di fatto si addomestica la belva, consentendole di spadroneggiare in condizioni di sicurezza. Ma non è solo questo. A spingermi qui è stato anche ( soprattutto?) il desiderio di capire qualcosa di più su cosa sia davvero la rabbia, divenuta in brevissimo tempo il metro stesso della sincerità politica, della credibilità di chiunque si esprima, sui social o nei media.
Facciamo un passo indietro. I familiari di Sigmund Freud raccontano che un giorno, nel salotto di casa, egli prese un quotidiano dalle mani della sorella, lo sfogliò con ritmo crescente, dopodiché ne fece un cartoccio e nell’imbarazzo generale lo gettò in un angolo. Scese il silenzio: tutti ebbero la certezza che la cronaca del giorno contenesse qualcosa di epocale, perché il dottor Freud mai e poi mai avrebbe consentito alla sua rabbia di manifestarsi con tanto clamore. È un’istantanea che ci proviene da un mondo lontano, in cui si viveva come gli eschimesi del popolo Utku, ovvero con un tale rifiuto "pubblico" della collera da imporre che ognuno — al primo sintomo di alterazione — lasci il gruppo sociale per sfogarsi altrove, in solitudine.
Per anni e anni abbiamo vissuto così, con il silenziatore. Rabbia repressa, per cui facevano letteralmente notizia le rare sfuriate a Montecitorio di Pajetta, del radicale Cicciomessere o del dc Albino Stella che nel ’52 sferrò un inaudito pugno sul muso di un collega monarchico. Era la preistoria. Stava per venire un tempo in cui la contabilità delle risse catodiche sarebbe sfuggita all’umano conteggio, brillando nelle gesta dei pionieri Vittorio Sgarbi e Aldo Busi, per trionfare nelle orge dei reality. Ma è l’approdo finale di un percorso cominciato con le contestazioni del dopoguerra, per cui Malcolm X tuonava che solo la rabbia può destare dalla narcosi. Primi passi di una graduale legittimazione. Certo, si trattava di un’ira costruttiva, dettaglio sostanziale.
Viceversa, in questa seconda decade del Terzo Millennio, la sensazione è che il meccanismo si sia più che mai inflazionato: sulla scia di vari Capitan Fracassa che dell’odio hanno fatto un’aureola, abbiamo insospettabili utenti Facebook che postano su qualsiasi tema con travasi di bile gratuiti, come se la rabbia fosse l’unico comune denominatore per l’accettazione sociale. Alla virtualizzazione del nostro comunicare, abbiamo supplito con la più concreta delle pulsioni, quella che di un account fa un animale, e dietro i byte ritrova la carne, di un coniglietto fa un gladiatore e di un praticello un’arena.
Il punto è che tutti i giochi prima o dopo stancano, se non altro perché le endorfine imparano il trucco. Voilà: la rabbia stessa, un tempo proibita e blasfema, è divenuta così normale da ufficializzarsi, perdendo ogni fascino. Urlare è diritto di tutti, insultare è pacifico, tanto dopo puoi avanzare l’alibi «sono fatto così, butto fuori tutto » (che è il via libera alla peggiore immondizia relazionale). E allora? Se questa è la norma, dove sta più il brivido? Mi sbaglierò, ma nel successo delle Rage Rooms avverto l’eco di tutto questo. Non l’apoteosi della rabbia, ma il principio della sua crisi: implica che forse là fuori, per le restanti ventitré ore e mezza, la giornata si auspica pacifica. Pagare per 10 minuti di sfogo significa circoscrivere la rabbia, impacchettarla, toglierle lo status di panacea, derubricandola a un hobby cronometrato. È un po’ come prendere atto che l’abbiamo fin troppo assolutizzata, e adesso ce ne dobbiamo disintossicare.
Paradossalmente è questo, per me, l’insegnamento della giornata: non ho bisogno di farmi forte della mia collera, identificandomi in lei per essere temuto. Non è la faccia in cui voglio riconoscermi, né fuori né dentro laRage Room, posso vivere benissimo senza urlare, senza inveire, senza infamare un nemico, non è lì che mi sentirò realizzato né soddisfatto. E allora sai che c’è? Pur senza aver spaccato niente, mi sento liberato. E col sorriso in faccia, me ne vado. Vuoi vedere che sono le prime luci dell’alba?