Robinson, 31 agosto 2019
Holiday Hall, lo scrittore che non c’è
È lo scrittore vacante una specie rara, forse un esemplare appena per ogni generazione letteraria. Non bisogna confonderlo con chi si limita a utilizzare uno pseudonimo. Quest’ultima è una scelta spesso scoperta, dovuta ai più diversi intenti, quali suddividere in categorie una produzione fuori misura (come per Georges Simenon, alias il romantico Jean du Perry o l’erotico Luc Dorsan) o garantirsi un po’ di libertà e sfuggire all’ansia del giudizio (come per Julian Barnes, nelle spoglie poliziesche di Dan Kavanagh o in quelle critiche di Edward Pygge). Talora la scelta è coperta, ma viene infine rivelata come una carta vincente. Il trucco più riuscito è stato opera di uno scrittore olandese, Arnon Grunberg. Ricevuto un premio letterario come miglior esordiente del biennio, si ripresentò in seguito con un romanzo firmato Marek Van der Jagt e lo rivinse. In queste scelte c’è la vanità del suicida, che spera di assistere al dolore causato partecipando al proprio funerale e lo fa, perché la sua morte altro non era che una messinscena. C’è l’impulso, anzi il progetto di confessare, in partenza o strada facendo, per riprendersi il proprio posto, non lasciare vacante, la sedia davanti alla scrivania, il podio del riconoscimento ottenuto. La vita dello scrittore negli ultimi decenni ha consentito inedite e (per i più) gradevoli conseguenze: si possono ottenere incarichi pubblici, entrare in parlamento, girare film. Chi vuole essere Elena Ferrante?
Rifaccio la domanda: chi avrebbe voluto essere Elena Ferrante prima che i suoi libri diventassero un caso internazionale? Si può barattare l’anonimato solo con un trionfo di quella portata. Eppure: è quello di Elena Ferrante ancora uno pseudonimo o la sua identità è stata accertata? Potremmo davvero considerare vacante il suo posto a tavola? O serve qualcosa in più e di diverso?
Ho sparso numerosi indizi che portano al non-identikit dello scrittore vacante: il gioco, il delitto perfetto, l’assenza definitiva. Tutto questo mi sembra consolidarsi intorno a un nome: Geoffrey Holiday Hall, lo scrittore in vacanza fin dal nome. La storia, almeno la sua partenza, è nota. Nel 1949 pubblica negli Stati Uniti un romanzo raffinato dal titolo The end is known, tradotto in Italia tre anni più tardi nei Gialli Mondadori come, impropriamente, La morte alla finestra. Solo la nuova traduzione Sellerio, nel 1990, lo riproporrà come La fine è nota, con una nota di Leonardo Sciascia che ne era rimasto affascinato. Nel 1954 uscirà con la stessa firma Qualcuno alla porta. Poi basta. Holiday Hall non produce più, scompare.
Ufficialmente l’1 novembre (Halloween) del 1981, ma non si sa dove. Nella pagina Wikipedia c’è anche un giorno di nascita (30 ottobre 1913, in New Mexico). La sua sola fotografia è discutibile e presunta come queste date: un giovane uomo elegante con la scriminatura a sinistra guarda verso destra. Mi ha ricordato un episodio di Friends in cui Phoebe scopre che la foto in cornice del padre che l’abbandonò è quella di un modello di Postal Market, ritagliata dalla nonna. Le poche righe biografiche inviate all’editore profumano, anche quelle, di scherzo. Si allude a studi abbandonati «perché lui e la scuola non si piacquero reciprocamente» e a una conoscenza non superficiale, anzi piuttosto ravvicinata, nei modi meno consoni, dell’Estremo Oriente.
Qualcuno ha ipotizzato che fosse un agente segreto, come fu John Le Carrè (pseudonimo di David John Moore Cornwell), ma Holiday Hall portò il suo segreto nella tomba (su cui è probabilmente inciso un altro nome). Chi era veramente? Un “anonimo” giornalista americano che azzeccò un grande esordio e un meno convincente seguito, poi finì le cartucce? O l’autore di un delitto perfetto che poté concedersi il lusso di non scoprirsi perché non aveva bisogno di fama, avendone già, e maggiore, col suo vero nome? Questa seconda interpretazione mi ha condotto a un azzardo, che è solo un’intuizione, il prurito di un lettore, non uno studio accademico. Eppure. Tre piccoli indizi, quasi una prova. Esposta qui nella forma più succinta, la sensazione nasce dal secondo romanzo, ambientato a Vienna, con atmosfere da intrigo spionistico e andamento da sceneggiatura cinematografica.
Evoca un film, del 1949, anno di uscita de La fine è nota: Il terzo uomo. Da lì si può risalire al principio. La fine è nota è una citazione dal Giulio Cesare di William Shakespeare (ma chi era costui? È davvero esistito con quel nome e presunto volto?). E un attore del Terzo uomo si cimentò, ancora ragazzino, con la regia teatrale proprio del Giulio Cesare, poi da grande mise in scena tutti i capolavori di Shakespeare da cui era ossessionato. Poi abbandonò gli studi, con reciproca soddisfazione.
Prima di affermarsi come regista, rivelò al mondo la passione per gli scherzi, inscenando alla radio il più riuscito del suo secolo: il finto annuncio dell’invasione degli extraterrestri. Sapeva fare l’illusionista, il mago, travestirsi, sparire e riapparire, la finzione era la sua natura. Il suo nome, l’avrete già capito, era Orson Welles. E il nome di Geoffrey Holiday Hall?"