il Giornale, 6 settembre 2019
Un tunnel lungo lo stretto di Bering
Ottantadue chilometri per cambiare il mondo. È già accaduto circa 15mila anni fa durante l’ultima era glaciale, quando i primi uomini passarono dall’Asia all’America camminando su un ponte di terra. Ora che l’Artico si sta sciogliendo, che si è aperta la corsa a sfruttarlo e colonizzarlo e che il Grande Nord del Pianeta si prepara a vivere, o subire, un travolgente sviluppo, quegli ottantadue chilometri dello Stretto di Bering sono diventati un’urgenza e un’ossessione: unire quei due lembi di terra che sul mappamondo sembrano appena sfiorarsi come gli indici delle mani protese nella Creazione di Michelangelo, potrebbe essere «un grande passo per l’umanità», dice Richard Beneville, sindaco di Nome, la cittadina portuale dell’Alaska che affaccia sullo Stretto e che sarebbe il terminal orientale del tunnel transcontinentale, opzione giudicata da tutti oggi più praticabile rispetto al ponte.
«Il problema non è che il tunnel sarebbe il doppio più lungo di quello nella Manica», spiega al telefono, «anzi, i fondali non superano i 50 metri, le condizioni geologiche sono migliori e i costi sarebbero in proporzione inferiori rispetto al Channel Tunnel, non supererebbero i 20 miliardi di dollari. Senza dire che a metà dello Stretto ci sono le due isole Diomede che secondo gli ingegneri consentono di procedere su due assi distinti. La questione è che qui, tra l’Alaska e la penisola di Chukotka, passa la linea di centrocampo tra due superpotenze. Ma l’America, il Canada, la Russia, e soprattutto la Cina sanno che non ha più senso bloccare la Storia per uno scherzo della Geografia, anche se poi, siccome i politici sono tutti vecchi come me, non s’impegnano come dovrebbero perché temono di non vivere abbastanza per inaugurare il tunnel. Per fortuna è una priorità imposta dalla globalizzazione e dall’ambiente, perché gioverebbe alla circolazione delle merci e delle risorse e abbasserebbe enormemente le emissioni». In verità non si tratta solo di perforare il granito sotto il mare, l’Operazione Bering comprende la costruzione di collegamenti ferroviari per circa ottomila chilometri tra Nord America, il Far East russo e la Cina Settentrionale. Ed è lì che si sta già lavorando.
A lungo s’è immaginato un ponte, lo sognava già di Nicola II salvo temere che potesse agevolare un’invasione di cercatori d’oro americani; ai primi del Novecento diventò la tesi di laurea di Joseph Strauss, uno studente di Cincinnati che poi s’accontentò di progettare il Golden Gate a San Francisco. Ora in Alaska non si parla che dell’Intercontinental Railway, un mega-studio promosso dall’ingegnere George Koumal e da una squadra di tecnici e accademici. «L’Alaska è destinata a diventare centrale nel commercio globale perché l’Artico è la scorciatoia naturale del traffico globale a causa del cambiamento climatico, eppure non esiste ancora neppure una ferrovia che ci colleghi al Canada e al resto degli stati americani. A Washington investono nelle armi non nei treni. Quindi dobbiamo muoverci noi, l’Alaska ha da poco siglato un accordo da 13 miliardi di dollari con le ferrovie dello stato dell’Alberta, ma nel nostro progetto transcontinentale abbiamo calcolato che solo in Nord America si dovranno costruire in dieci anni 2.800 chilometri di binari. Altri 3.800 sono quelli calcolati da russi e cinesi. Secondo i nostri calcoli l’Operazione Bering costerebbe circa 250 miliardi di dollari e potrebbero essere interamente finanziati da un consorzio privato internazionale».
L’ingegnere cinese Wang Mengstu ne ha scritto sul Beijing Times, spiegando come Pechino stia trattando con Mosca per cofinanziare una rete ferroviaria di circa diecimila chilometri complessivi, duemila in più rispetto alla Transiberiana, per collegare la provincia settentrionale cinese di Heilongjiang alla Yakuzia (dove già sono arrivati i binari della Baikal-Amur) per poi salire a nord est fino alle sponde artiche della Chukotka e di Bering. Il potente capo delle Ferrovie russe, Vladimir Yakunin, in un convegno nel 2018 ha parlato dell’intenzione russa di arrivare oltre la Yakuzia e fino allo Stretto: «Con il tunnel significherebbe sviluppare il far east russo, costruire nuove industrie, nuove città, accedere a materie prime finora mai sfruttate nelle nostre regioni orientali, un’impresa simile a quella della grande elettrificazione dell’Urss tra il 1925 e il 1930».
L’accademia delle scienze di Mosca sta studiando come sviluppare tremila chilometri di ferrovia utilizzando energie alternative e come i lavori per il tunnel potrebbero essere alimentati con l’energia delle maree. Intanto nel porto remotissimo di Pevek in Chukotka sta per arrivare l’Akademik Lomonosov, la centrale nucleare galleggiante partita da Murmansk in agosto. L’Operazione Bering, da una parte all’altra dello Stretto, prevede condotte per petrolio e gas: secondo i russi potrebbero passare ogni giorno un milione e mezzo di barili. «Il traffico delle navi cinesi, cargo e supertank per il trasporto del gas liquido naturale dall’Artico russo, aumenta ogni anno del 40 per cento sullo Stretto», dice il sindaco di Nome. «La Cina è il primo esportatore di merci negli Stati Uniti, dazi o non dazi. Con il tunnel si potrebbe convogliare su binari quasi il dieci per cento del trasporto di materie prime e beni del Pianeta». Resta quella «linea di centrocampo» che rende lo Stretto un Muro di Bering tra Russia e Stati Uniti, e la crescente tensione tra Washington e Pechino per l’aggressiva dottrina artica dei cinesi (soprattutto in Groenlandia) ma il sindaco è convinto che un accordo a tre sul tunnel sia possibile. «Esiste pure un trattato di cooperazione spaziale, no?». Il sospetto è che sia più facile arrivare su Marte che annullare quegli ottantadue chilometri.